Non hanno fatto in tempo ad asciugare i bicchieri del prosecco che la cosiddetta pace a Gaza già si mostra per quello che è. Sei civili palestinesi, secondo l’agenzia Wafa, sono stati uccisi ieri a Shuja’iyya da droni israeliani mentre tornavano tra le macerie delle loro case. Israele sostiene che si trovassero in una “zona vietata”. Come se l’intera Striscia non fosse ormai un’unica zona vietata alla vita.
Netanyahu, intanto, fa l’unica cosa che sa fare: minaccia. È l’unico linguaggio del suo governo, quello della violenza e dell’oppressione. Ma mentre i droni riprendono a colpire, un’altra offensiva, più silenziosa, si consuma in rete: Instagram ha cancellato l’account del giornalista Saleh al-Jafarawi, ucciso nei giorni scorsi. Aveva oltre 4 milioni e mezzo di follower. Le sue immagini, le testimonianze del genocidio, sparite anche dagli archivi. Una rimozione sistematica, più rapida delle stesse ruspe chiamate alla “ricostruzione”.
A Jabalia si continua a combattere: scontri tra forze di sicurezza di Hamas e gruppi armati sostenuti da Israele, riferisce Al Jazeera. All’ospedale di Khan Yunis arrivano nuovi feriti. A Shuja’iyya i corpi vengono recuperati da chi non aveva più nulla da perdere.
Questa non è una pace, perché non c’è giustizia. Non quella del diritto internazionale, con la Croce Rossa trattata come un fastidio, né quella morale, negata a un popolo ridotto all’apolidia e al silenzio.
Non è fragile la pace. Quella non esiste. È fragile la sopravvivenza e la libertà di Gaza, semplicemente perché l’una non è garantita e l’altra non è contemplata in quel piano che tutti celebrano. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza.