Rimpatri volontari dalla Libia: i fondi dell’Italia sotto la lente dell’Onu

L’Italia rifinanzia i rimpatri “volontari” dalla Libia. Per l’Onu il consenso è viziato dalla detenzione e dal rischio di violenze

Rimpatri volontari dalla Libia: i fondi dell’Italia sotto la lente dell’Onu

A luglio scorso il Ministero degli Esteri ha rifinanziato i programmi di rimpatrio “volontario umanitario” dalla Libia, destinando 7 milioni di euro all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. I fondi coprono assistenza e organizzazione del rientro nei Paesi d’origine di persone bloccate in territorio libico, tra cui migranti intercettati in mare o prelevati dai centri di detenzione. Ad aprile, inoltre, l’esecutivo aveva rilanciato il programma LAIT, con altri 20 milioni di euro e l’obiettivo dichiarato di rimpatriare oltre 3.300 persone da Libia, Tunisia e Algeria.

Nella narrazione ufficiale, si tratta di uno strumento umanitario: aiutare chi desidera tornare a casa e non ha mezzi. Tuttavia, tre Relatori Speciali delle Nazioni Unite, già ad aprile, avevano messo in guardia Roma. I rimpatri avvengono in condizioni tali da rendere la volontarietà altamente discutibile. In Libia non esistono alternative alla detenzione: chi rifiuta il rimpatrio resta in luoghi dove sono documentate violenze sistematiche, estorsioni, sparizioni, lavoro forzato.

Quando “volontario” non significa libero

I giuristi consultati dall’ONU descrivono questi rientri come “scelte che non si possono rifiutare”. La volontà dei migranti è formata all’interno di un contesto coercitivo: centri di detenzione privi di garanzie, minacce, privazione di cibo e cure, impossibilità di muoversi liberamente o chiedere protezione. In molti casi le persone erano partite per cercare asilo, non per tornare indietro.

Il rischio segnalato è quello di una violazione del principio di non-refoulement, che vieta di respingere qualcuno verso luoghi dove può subire tortura o trattamenti inumani. In Libia, il quadro è ampiamente documentato da Unhcr, dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e anche dalla magistratura italiana: pestaggi, stupri, omicidi in cella, sequestri a scopo di riscatto, fosse comuni. Non si tratta di episodi isolati, ma di una condizione strutturale.

Il governo italiano sostiene che le procedure Oim garantiscano informazione e consenso; l’Onu replica che manca un monitoraggio indipendente, e che lo Stato non verifica in proprio cosa accade dopo il rientro. Le figure di controllo sono tutte interne al circuito dei finanziamenti, senza un soggetto terzo.

La continuità con la politica di esternalizzazione

Il rifinanziamento rientra in una strategia consolidata: esternalizzare gestione e contenimento della mobilità, sostenendo Paesi terzi perché blocchino o recuperino chi tenta di partire. Dal Memorandum Italia-Libia del 2017, la cooperazione si è concentrata sul rafforzamento della Guardia costiera libica, sul contrasto alle partenze e sul trasferimento di competenze sulle intercettazioni in mare. Il nuovo finanziamento prevede nuovamente attività di “supporto tecnico” alle autorità libiche, in continuità con questa linea.

Secondo diverse ONG italiane, tra cui Asgi e A Buon Diritto, si assiste a una sorta di “umanitarizzazione della deportazione”: politiche presentate come tutela della vulnerabilità, ma che di fatto legittimano il blocco dei movimenti e i ritorni in Paesi a rischio estremo.

Le organizzazioni hanno avviato un contenzioso legale e una campagna di denuncia, “A choice you cannot refuse”, con cui contestano la compatibilità dei programmi con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia. 

Il paradosso

Il paradosso è evidente: per “proteggere” le persone, si finanziano dispositivi che le riportano nei luoghi da cui erano fuggite. Nel frattempo, le alternative legali restano assenti: corridoi umanitari limitati, procedure d’asilo difficili da attivare, vie d’ingresso regolare in gran parte chiuse.

Mentre prosegue il racconto istituzionale del rimpatrio come gesto di aiuto, continuano ad arrivare testimonianze da Tripoli e Misurata che parlano di celle senza luce, violenze sessuali, corpi mai restituiti. Le stesse istituzioni internazionali che l’Italia dichiara di voler sostenere chiedono trasparenza, garanzie e monitoraggio.

La domanda politica resta inevasa: può esistere “volontarietà” quando non c’è via d’uscita?