L’appello è arrivato mentre il disegno di legge sulle Pmi sta per entrare alla Camera. Filctem Cgil, Campagna Abiti Puliti, Libera, Transparency International Italia e decine di altre sigle chiedono ai deputati di fermarsi: «Non votate il ddl che legalizza lo sfruttamento nella moda». La denuncia prende forma dopo mesi di indagini della Procura di Milano che hanno messo sotto amministrazione giudiziaria marchi simbolo del lusso nazionale, svelando paghe da pochi euro l’ora, opifici-dormitorio e una catena di subappalti costruita sulla dipendenza economica dei laboratori.
Il nodo della certificazione “volontaria”
Il testo approvato al Senato introduce una certificazione di conformità della filiera ottenibile su base volontaria. È l’elemento che ha riacceso le tensioni. Secondo l’appello, il bollino «rischia di trasformarsi in uno scudo penale» perché la capofila potrà esibire contratti formalmente corretti e rivendicare la propria estraneità agli abusi che emergono in fondo alla catena. Una strategia già vista: nelle misure di prevenzione del Tribunale di Milano – disposte verso alcuni marchi di prestigio del settore della moda – le società principali non risultano indagate per caporalato, mentre l’accusa ricostruisce una “agevolazione colposa” che ha permesso ai fornitori di sfruttare manodopera irregolare.
Deborah Lucchetti, coordinatrice di Abiti Puliti, lo definisce un modello che «scarica la responsabilità sui fornitori e tutela il brand». Nei dossier allegati alla campagna si spiega che i documenti richiesti dalla certificazione sono gli stessi che i subappaltatori già oggi consegnano, spesso non corrispondenti alle condizioni reali dei lavoratori. Gli attivisti temono che il nuovo bollino cristallizzi questa distanza fra carta e produzione, rendendo più difficile l’accertamento giudiziario della responsabilità delle capofila.
Una filiera sotto indagine, un Parlamento sotto pressione
Le inchieste degli ultimi mesi delineano un quadro che il ddl non affronta. Le carte dei vari casi parlano di prassi «radicata e collaudata» nelle subforniture, descrivono turni notturni, salari a 2,75 euro e alloggi di fortuna. Nelle ricostruzioni giudiziarie, la marginalità penale delle capofila dipende dalla distanza formale creata dai contratti di appalto. Proprio questo meccanismo, sostengono sindacati e Ong, verrebbe consolidato dal disegno di legge con l’istituzione di una filiera “certificata” che non impone verifiche indipendenti, controlli sul campo, obblighi di pubblicazione dei fornitori.
La Regione Lombardia ha firmato in primavera un Protocollo per la legalità nella moda con una piattaforma di tracciabilità, anch’essa non obbligatoria. Il ddl nazionale replica quell’impianto, lasciando all’adesione volontaria la parte più delicata: la trasparenza. Nel frattempo l’Europa chiede tutt’altro. La direttiva Csddd obbliga le grandi imprese a verificare e prevenire gli impatti negativi sui diritti umani lungo tutta la filiera. Secondo la rete che ha sottoscritto l’appello, il Parlamento dovrebbe muoversi in questa direzione, rafforzando la responsabilità dei committenti invece di concedere una via d’uscita attraverso un marchio di conformità.
L’arrivo del testo alla Camera è la prima vera prova politica. Nelle prossime settimane i deputati dovranno decidere se modificare le norme o confermarle così come sono. I firmatari chiedono un cambio di rotta immediato: due diligence obbligatoria, pubblicazione dei fornitori, controlli reali. Perché il rischio è che il Made in Italy continui a produrre valore al vertice e vulnerabilità nella base, mentre la legge, anziché intervenire, ne certifica la distanza.