Nel documento interno della brigata Givati trapelato ieri c’è una riga che racconta più di molte conferenze stampa. Il 19 novembre 2024 un corrispondente militare parla di «circa 40 terroristi» uccisi mentre tentavano di fuggire da Jabalia sotto pioggia e nebbia. Nel foglio Excel ufficiale, però, quel giorno i morti registrati sono dieci, due il giorno prima. Trenta persone che scompaiono nella contabilità della guerra, inghiottite da una parola che le assorbe tutte: «terrorista». È in quella discrepanza che si vede come una tregua possa convivere con un archivio che continua a cancellare. Sul terreno la tregua resta una formula diplomatica. A Beit Lid, in Cisgiordania, oltre cinquanta coloni mascherati hanno incendiato camion, terre agricole, una fabbrica, ferendo quattro palestinesi. Nelle agenzie scorrono altre violenze: una moschea bruciata nel nord, scritte razziste, minacce persino ai soldati israeliani. A Gaza i raid su Khan Yunis e Beit Lahia continuano a intermittenza: un morto a Jabalia, demolizioni di siti definiti “oltre la Linea Gialla”. Il senatore Rubio avverte che la violenza dei coloni può far saltare la tregua, mentre nello stesso giorno invoca una forza multinazionale di “stabilizzazione”. Due piani paralleli che non si toccano.Nei palazzi, infatti, si lavora sulla narrazione. Il G7 Esteri in Canada dice di occuparsi di «Gaza e tensioni emergenti», mentre Trump scrive a Herzog chiedendo la grazia per Netanyahu in pieno processo. Macron autorizza le aziende israeliane della difesa al salone di Parigi. In Italia si parla sempre meno delle violazioni della tregua e il silenzio del governo. Resta la stessa lezione: nei conflitti e nelle politiche, ciò che non viene registrato smette di esistere. A Gaza e in Cisgiordania spariscono vite; altrove spariscono responsabilità. Il metodo è identico: correggere i numeri e sperare che il mondo guardi altrove.
La Sveglia