Morti palestinesi in custodia: il dossier PHRI che accusa il sistema carcerario israeliano

PHRI rivela almeno 98 palestinesi morti in custodia dal 7 ottobre. Tra dati nascosti, civili senza processo, opacità e impunità militare

Morti palestinesi in custodia: il dossier PHRI che accusa il sistema carcerario israeliano

Il nuovo lavoro di Physicians for Human Rights – Israel, incrociato con l’inchiesta congiunta del Guardian, di +972 Magazine e Local Call, costringe Israele ad ammettere ciò che aveva evitato per mesi: almeno 98 palestinesi sono morti in custodia dal 7 ottobre 2023, secondo dati ufficiali consegnati dall’esercito e dal servizio penitenziario.

È un salto senza precedenti rispetto ai due o tre casi l’anno del decennio pre-guerra. Il numero emerge da documenti inviati a PHRI tra il 2024 e il 2025, dopo mesi di opacità in cui l’esercito ha perfino omesso di comunicare se le persone arrestate fossero vive, ferite o già trasferite nei campi militari.

La maggior parte dei morti sono civili provenienti da Gaza, detenuti senza accuse né processo sulla base della normativa che permette la classificazione come “combattenti illegali”. Gli stessi registri militari, rivelati da un database interno dell’intelligence citato dal Guardian nel settembre 2025, mostrano che solo un detenuto su quattro proveniente da Gaza è considerato “militante”: il resto è popolazione civile passata attraverso strutture dove violenze e malnutrizione sono documentate come prassi.

Campi militari e carceri: la geografia degli abusi

PHRI individua almeno dodici strutture civili e militari coinvolte. Il campo di Sde Teiman, nel Negev, è descritto da un ex infermiere militare come un luogo di incatenamento permanente, pestaggi ricorrenti e razioni di cibo ridotte “per motivi di sicurezza”, formula rivendicata in pubblico dall’allora ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. In quella struttura si concentra il numero più alto di decessi: 29 morti confermati da fonti militari.

Nel carcere militare di Ofer è morto il primario di ortopedia di al-Shifa, Adnan al-Bursh, dopo quattro mesi di detenzione. Il corpo non è stato restituito. In altri casi, come quello del direttore dell’ospedale Kamal Adwan, Hussam Abu Safiya, l’esercito ha negato per giorni perfino l’esistenza dell’arresto, nonostante le immagini che documentavano il fermo. PHRI registra anche 21 morti senza nome, comunicati dall’IPS solo tramite il luogo del decesso: nessun riferimento anagrafico, nessuna spiegazione per le famiglie.

Organizzazioni come HaMoked parlano apertamente di “politica di sparizione forzata”: centinaia di detenuti risultano irrintracciabili per settimane, e in molti ricorsi le autorità rispondono che “non esiste alcun record dell’arresto” anche quando ci sono video e testimoni oculari. Per mesi, tra il 2023 e il 2024, le richieste di informazioni sono state respinte o lasciate senza risposta.

Impunità e catena di comando

Nel biennio di guerra, solo un soldato è stato condannato, a sette mesi di carcere, per un pestaggio documentato in video. Nessun procedimento ha riguardato i casi di morte in custodia. È invece esploso il caso dell’avvocata militare Yifat Tomer-Yerushalmi, il cui tentativo di indagare sugli abusi a Sde Teiman ha generato proteste dell’estrema destra e un clima di intimidazione fino alle sue dimissioni e all’arresto per presunta divulgazione di materiale riservato. Per le Ong israeliane, è la prova di un sistema che punisce chi indaga, non chi è coinvolto nelle violenze.

Secondo PHRI, la combinazione di uccisioni in custodia, torture, malnutrizione intenzionale, negazione delle cure e occultamento dei detenuti configura violazioni delle Convenzioni di Ginevra e della Convenzione Onu contro la tortura. Giuristi citati dall’inchiesta parlano di condizioni compatibili con la definizione di crimini di guerra e, se verrà dimostrata la sistematicità della pratica, anche di crimini contro l’umanità.

Il dato resta parziale, perché molte informazioni restano classificate. Ma il quadro che emerge è chiaro: in meno di due anni sono morte più persone in custodia di quante se ne siano registrate in un decennio, mentre i meccanismi di controllo si indeboliscono e il governo rivendica linee “dure” nelle carceri. Le famiglie, spesso ignare del destino dei propri cari, si rivolgono alle corti come unico modo per strappare una risposta. Le ONG parlano di “un sistema fuori controllo”: la definizione che descrive meglio un buco nero in cui, per molti detenuti palestinesi, si è spezzata ogni garanzia minima di vita.