Governo-Università di Bologna: cosa c’è davvero dietro lo scontro sul corso per i militari

Il rifiuto del Dipartimento di Filosofia diventa un caso nazionale: autonomia accademica contro la pressione politica

Governo-Università di Bologna: cosa c’è davvero dietro lo scontro sul corso per i militari

29 novembre 2025, Bologna. La scintilla arriva da un palco istituzionale, quando il generale Carmine Masiello racconta che il Dipartimento di Filosofia dell’Alma Mater ha detto no a un corso su misura per 15 ufficiali. Bastano poche frasi perché tutto cambi tono. Il ministro Guido Crosetto: «Hanno chiuso la porta a chi li difende». La ministra Bernini rincara. Il caso diventa un processo pubblico, diretto non a un dipartimento, ma all’idea stessa di autonomia accademica.

La decisione che non doveva essere presa

Per capire l’impatto di quelle ore bisogna tornare al 23 ottobre 2025, nella sala dove il Consiglio di Dipartimento vota. Il progetto dell’Esercito prevedeva un percorso riservato, parallelo ai corsi ordinari. Non un’iscrizione libera, ma una convenzione chiusa. I docenti la respingono: «non sussistono le condizioni materiali e formali».

La politica trasforma la frase in un’accusa. Parla di paura, di pregiudizio, di campus assediato dai collettivi. Ma negli atti non ci sono né assedi né proclami. C’è una valutazione tecnica, il principio che la filosofia vive nel confronto aperto, non nella separazione di gruppi scelti.

E soprattutto c’è un dato che a Roma ignorano: Bologna forma già ufficiali. La collaborazione con l’Esercito è consolidata, strutturale, ampia. L’Ateneo ospita una laurea magistrale in Scienze strategiche e militari, costruita insieme alla Difesa. È un flusso costante di studenti in divisa, integrati nei percorsi universitari. Il rifiuto di Filosofia è un’eccezione, non una frattura.

La narrazione politica ribalta tutto: non un no a un privilegio, ma un no ai militari. Un atto amministrativo diventa un dispetto ideologico. È qui che il caso smette di essere locale e diventa un test per misurare la pressione del governo sulle istituzioni culturali.

Le parole che cambiano la scena

Crosetto sceglie un registro preciso quando non discute di norme ma di lealtà. Non risponde alla domanda giuridica — chi decide cosa si insegna? — ma a un’altra, implicita: chi sostiene chi? È un linguaggio che sposta il terreno. Se gli ufficiali «difendono» i professori, allora ogni rifiuto può essere presentato come un torto morale. La ministra Bernini segue lo stesso schema: il dipartimento avrebbe «tradito» la missione formativa.

La realtà è più banale e più robusta: l’università non è vincolata a erogare formazione su richiesta di un altro potere dello Stato. L’autonomia non è un privilegio, è una funzione costituzionale, nata proprio per impedire che il governo indirizzi la produzione del sapere.

Ma la polemica si accende perché è utile. Permette di presentare l’Alma Mater come un baluardo ideologico, mentre in parallelo i dipartimenti scientifici lavorano con Leonardo, partecipano al Tecnopolo e utilizzano il supercalcolatore Leonardo per applicazioni civili e militari.

È questo paradosso a rendere la vicenda così rivelatrice: l’università che viene accusata di chiudere la porta alla divisa è la stessa che contribuisce alla sua infrastruttura tecnologica.

Il tassello che mancava

C’è un altro livello, quello meno dichiarato. La Difesa ha già rapporti forti con l’Ateneo sulla ricerca, sull’ingegneria, sulla tecnologia. Ciò che manca è la legittimazione culturale. Un corso di filosofia riservato agli ufficiali avrebbe segnato un passaggio simbolico decisivo: portare la “cultura della difesa” dentro il luogo che produce pensiero critico sul potere.

Un dipartimento umanistico che apre la propria didattica a un corpo armato non offre soltanto formazione: offre un riconoscimento. Il rifiuto dei filosofi ha bloccato questa operazione. E la reazione politica mostra quanto quel sigillo fosse considerato strategico.

Intanto, fuori dall’università, cresce la tensione: protocolli scuola-Difesa, studenti portati in caserme e fiere militari, moduli paramilitari mascherati da educazione civica. I docenti e le associazioni che monitorano la militarizzazione del sistema educativo parlano di una normalizzazione che avanza per accumulo. In questo quadro, il voto del Dipartimento non è solo una scelta disciplinare: è una linea tracciata.

Il punto, alla fine, non sono i 15 ufficiali e non è un corso mancato. Il punto è se un’università pubblica possa ancora decidere che cosa insegnare, come e a chi, senza dover adeguare la propria identità culturale alle aspettative del ministro della Difesa. È questo che rende la vicenda di Bologna un caso politico, prima ancora che accademico.