Ormai l’abbiamo letto dappertutto. Il 10 dicembre 2025, a Nuova Delhi, il Comitato intergovernativo dell’Unesco ha iscritto la cucina italiana nella Lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Nei documenti ufficiali dell’organizzazione il perimetro è esplicito: pratiche sociali, saperi trasmessi tra generazioni, rituali quotidiani legati ai territori e alle stagioni.
Una definizione che richiama comunità, relazioni e trasmissione culturale, non prodotti o marchi. Poche ore dopo, la comunicazione del governo ha suonato la grancassa. Il riconoscimento è diventato “vittoria nazionale”, consacrazione identitaria, strumento di promozione del made in Italy. Giorgia Meloni, intervenendo ad Atreju, ne ha approfittato per evocare presunti “rosiconi” che “mangiano kebab da una settimana”, spostando il piano dal riconoscimento culturale allo scontro simbolico.
Ma la distanza tra ciò che l’Unesco ha riconosciuto e ciò che il governo racconta va ricostruita con precisione. L’organizzazione internazionale certifica un patrimonio immateriale, per definizione plurale e in continua trasformazione, come chiarito nelle linee guida della Convenzione del 2003. La narrazione ufficiale lo riscrive invece come marchio, bandiera e prova di una sovranità alimentare che nei documenti Unesco non compare. È un salto semantico che altera il senso del riconoscimento e ne riduce la portata culturale.
Dalla pratica sociale al brand di Stato
La campagna istituzionale che ha accompagnato la candidatura è documentata negli atti del Ministero dell’Agricoltura: logo ufficiale, slogan, inno celebrativo, eventi promozionali in Italia e all’estero. La cucina italiana viene incorniciata come prodotto unitario, omogeneo, spendibile sul mercato globale. Una rappresentazione funzionale alla comunicazione politica, ma distante dalla realtà storica.
La cucina italiana, come mostrano studi e ricostruzioni accademiche consolidate, è un insieme di tradizioni locali, frutto di contaminazioni, migrazioni e adattamenti territoriali. È un fatto sociale prima che economico. Lo slittamento diventa ancora più evidente quando il riconoscimento viene presentato come strumento di difesa del made in Italy.
Per statuto, l’Unesco non tutela marchi, ricette o prodotti commerciali. Riconosce pratiche culturali. Trasformare quel riconoscimento in scudo identitario significa usarlo per fini diversi da quelli dichiarati, caricandolo di aspettative economiche e simboliche che nel dossier di candidatura non sono previste.
Filiere, lavoro e accesso al cibo
La retorica celebrativa entra in crisi quando si guarda alla filiera agroalimentare. Secondo i dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto e delle principali organizzazioni sindacali, l’agricoltura italiana resta uno dei settori più esposti a lavoro irregolare e caporalato, con centinaia di migliaia di lavoratori coinvolti ogni anno. È una criticità strutturale, rilevata anche da relazioni istituzionali, che convive con la narrazione dell’eccellenza. La cucina elevata a patrimonio dell’umanità continua a poggiare su condizioni materiali che lo Stato conosce e che faticano a trovare risposta.
C’è poi la questione delle materie prime. I dati di Ismea e Istat mostrano che una quota significativa di cereali, mangimi e oli utilizzati dall’industria alimentare italiana proviene dall’estero. La sovranità alimentare evocata nei discorsi ufficiali si scontra con una realtà fatta di catene globali di approvvigionamento e accordi commerciali che aumentano la pressione competitiva sui produttori interni. Anche qui, il patrimonio celebrato come simbolo di autosufficienza vive dentro un sistema aperto e diseguale.
Infine, l’accesso al cibo. Negli ultimi anni, come certificano le rilevazioni Istat, i prezzi dei beni alimentari sono cresciuti più dell’inflazione generale, incidendo in modo diretto sui bilanci familiari. I consumi si sono spostati verso prodotti a minor qualità e verso la grande distribuzione discount, il cui peso è aumentato in modo costante. Il rito del “pranzo della domenica”, spesso evocato nella comunicazione istituzionale, convive con una rinuncia quotidiana sempre più diffusa. La cucina raccontata come patrimonio condiviso si allontana dall’esperienza concreta di una parte del Paese. Anche qui la retorica sovrasta i numeri: più che “stile di vita”, per molti diventa una scelta obbligata di risparmio.
Il riconoscimento Unesco parla di pratiche vive, comunità e trasmissione. La propaganda politica lo usa come certificato identitario e leva promozionale. In mezzo restano le cont