A 15 anni dalla Diaz, la tortura per il Parlamento non esiste ancora. Ma in carcere c’è, eccome

Non solo Cucchi, Aldovrandi e Uva. Sono tanti i casi di presunta tortura per cui sono in piedi anche processi. Da Rotundo a De Michiel, ecco le loro storie.

Enzano è una frazione di Sorbolo (provincia di Parma) che conta meno di 300 abitanti. Qui, nella Parrocchia di Sant’Andrea Apostolo, c’è don Franco Reverberi. Un parroco e nulla più, si penserà. E invece il suo nome, con tanto di foto, compare anche nella lista di “wanted” dell’Interpol.

Reverberi

Come si legge dalla scheda, l’accusa rivolta a Don Reverberi è “imposicion de tormentos”. In italiano: tortura. “Don Reverberi – come denunciato già qualche giorno fa dall’associazione Antigone e come già scritto anche dal nostro giornale (anche se la curia ha prontamente precisato che le accuse rivolte a Reverberi sarebbero assolutament infondate) – è accusato di essere complice, anzi autore, delle torture perpetrate dai militari nell’Argentina di Videla”. Parliamo, ovviamente, di Jorge Rafael Videla Redondo, il dittatore che arrivò al potere con un colpo di Stato ai danni di Isabelita Perón. Secondo le accuse, ci sarebbero diversi testimoni e prgionieri che parlano di un cappellano italiano vestito da militare. Ecco, quel cappellano sarebbe Don Reverberi. Tanto basta per le autorità argentine per chiedere l’estrazione. Un’estradizione risalente già al 2012.

La richiesta è stata giudicata prima dalla Corte d’Appello di Bologna e poi dalla Corte di Cassazione. Ma la risposta è stata sempre la stessa: la magistratura italiana non ha concesso l’estradizione all’Argentina in quanto in Italia manca il delitto di tortura. E mancherà ancora a lungo – con buona pace del don – dato che il Parlamento italiano ha deciso, dopo aver accumulato ben 30 anni di ritardi (la convenzione Onu, ratificata dal nostro Paese, è del 1984), di procrastinare ancora. Il motivo? Semplice: a detta di Angelino Alfano, in periodo di minaccia Isis meglio non infastidire le forze di polizia.

NUMERI DRAMMATICI – Sarà. Ma intanto in carcere – e non solo in carcere – si continua a morire. E molti casi passati probabilmente sarebbero andati diversamente  se il nostro Paese fosse stato dotato di un sistema penale adeguato. E non parliamo solo dei tragici casi di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e Francesco Aldovrandi. Tanti altri – meno noti – sono accaduti nella nostra “civile” Italia. Basta partire da un numero per capire che qualcosa non torna. Secondo il report dell’associazione Ristretti Orizzonti, dal 2000 a oggi sono stati 2.502 i morti accertati nelle carceri (891 suicidi). Il calcolo è immediato: un decesso ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Almeno sulla carta. Perché accanto ci sono casi di pestaggio, malasanità, cure non ricevute, istigazioni al suicidio. O, semplicemente, silenzi ed omertà.

DA ROTUNDO A DE MICHIEL – “Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire”, ricorda Giuseppe Rotundo. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. “Sapevo – racconta – che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato”. Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile anche qui, dato che in Italia non esiste la legge.

Ma ieri è ripreso anche un altro processo, dove 5 poliziotti sono imputati per il pestaggio ai danni di Tommaso e Nicoló De Michiel avvenuto nell’aprile del 2009. Quella notte in carcere, quando la madre arriva, trova uno dei due figli disteso a terra, una decina di poliziotti attorno. Ha il giubbotto e in un primo momento non nota le manette, ma vede che il volto è una maschera di sangue. Come uniche risposte avrà silenzi e sorrisi di scherno. E il refereto poi dell’ospedale: Tommaso De Michiel, 25 anni, una costola rotta e una incrinata, ematoma ai testicoli, trauma facciale, emorragia ad un occhio, labbra tumefatte, lesioni ai polsi provocate da trascinamento. Ma anche qui non esiste tortura. Perchè così ha deciso il Parlamento.

Tw: @CarmineGazzanni