Ieri, 22 maggio 2025, almeno 51 palestinesi sono stati uccisi nei bombardamenti israeliani su Gaza. È una cifra che si somma silenziosamente a un totale che ha già superato le 53.762 vittime confermate. Ogni giorno un aggiornamento. Ogni giorno un bollettino di guerra che passa inosservato nei palinsesti e nei vertici diplomatici.
Dal 7 ottobre a oggi, Israele ha ucciso più di 3.600 persone solo dopo la rottura del cessate il fuoco, il 18 marzo. A queste si aggiungono mille corpi estratti dalle macerie. Come se la guerra non si fosse mai fermata, neanche durante la cosiddetta “tregua”, tra gennaio e marzo, in cui morirono almeno 170 civili e più di 2.200 furono sepolti vivi.
La violenza continua a mutare forma: non è solo fuoco dall’alto. È fame. È prigionia. Ieri il ministro della Salute palestinese ha confermato la morte per fame di 29 bambini e anziani. Ha detto che 14.000 neonati rischiano la stessa sorte. È un numero che dovrebbe far tremare i tavoli dell’Onu. E invece no: sono tavoli che restano vuoti mentre le forniture umanitarie restano bloccate ai confini e gli ospedali vengono bombardati.
A Rafah si spara ancora. A Jenin i diplomatici stranieri vengono “avvisati” a colpi di mitra. A Sde Teiman si continua a morire nei lager israeliani: oggi è toccato ad Amr Hatem Odeh, 33 anni, padre di tre figli, morto nella base-prigione nel Negev dove Israele tiene centinaia di palestinesi senza processo.
C’è una logica che tiene insieme tutto questo: è la logica del disumano che si fa sistema, della punizione collettiva come strategia, del genocidio come prassi.
L’Occidente guarda, commenta, si astiene. E Gaza muore, ogni giorno, con la puntualità dei suoi numeri.