Il massacro di Gaza ha minato alle fondamenta la retorica dell’“unica democrazia del Medio Oriente”. Le immagini dei bambini affamati uccisi in fila per il cibo, degli ospedali devastati, delle fosse comuni hanno rotto il patto ipocrita tra Israele e le sue alleanze occidentali. Quando l’indignazione internazionale ha iniziato a farsi pericolosa, Benjamin Netanyahu ha spostato il mirino: non più Gaza, ma Teheran.
L’attacco all’Iran non è soltanto un’operazione militare. È una manovra mediatica. Serve a riscrivere la narrazione: da carnefice a vittima, da Stato assediante a Paese aggredito. Così, nel cuore di un’opinione pubblica ormai stanca della complicità, Israele tenta di riprendersi la scena invocando ancora una volta la minaccia esistenziale e il diritto alla difesa.
Ma questa volta non basta. La legittimità dell’attacco preventivo, motivato da informazioni di intelligence che nessuno può verificare, ricorda le falsità con cui fu giustificata la guerra in Iraq. Con una differenza: oggi, la credibilità degli Stati Uniti e di Israele è già logorata, e il loro doppio standard – per cui Teheran viola i trattati sul nucleare ma Tel Aviv nemmeno li firma – è diventato insostenibile.
Netanyahu non cerca sicurezza, ma consenso. Dentro Israele, ha bisogno di guerra per mantenere il potere. Fuori, ha bisogno di alimentare il caos per sembrare l’unico in grado di governarlo. Ma il Medio Oriente non è un laboratorio per ambizioni personali. È fatto di popoli che esistono, soffrono, reagiscono. E che pagano il prezzo delle guerre usate come propaganda. Come i bambini bombardati ieri nell’ospedale pediatrico di Teheran.