A Trapani non c’è più religione, il Vescovo a giudizio per peculato. Contestato ammanco da mezzo milione dall’8 per mille, ma su parte delle accuse è già scattata la prescrizione

Quando si tratta di intascare soldi ci vuole un attimo per passare da santi a briganti. Una tentazione a cui nessuno è immune. L’ex vescovo di Trapani, Francesco Miccichè, è stato così rinviato a giudizio con l’accusa di peculato per la gestione dei fondi dell’8xmille, quelli che dovrebbero servire a sostenere nelle sue mille attività benefiche la chiesa cattolica. Il prelato, dal 2007 al 2012, dunque per ben cinque anni, quel denaro lo avrebbe messo in tasca, appropriandosi di oltre 300mila euro e utilizzato parte della somma per acquistare un appartamento a Roma, nella centralissima zona Barberini.

L’INCHIESTA. Le indagini sono state avviate dopo alcune inchieste sulla gestione finanziaria della curia pubblicate su un settimanale locale della provincia siciliana, L’Isola. Il vescovo, che ha comunque continuato a celebrare, venne rimosso nel 2012 da Benedetto XVI,  in seguito a una visita ispettiva eseguita dal “visitatore apostolico”, monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, e gli inquirenti hanno scoperto che era autorizzato ad operare su due conti correnti, in cui, nel periodo incriminato, confluirono quasi cinque milioni di euro, entrambi intestati alla diocesi di Trapani. Tutto denaro frutto dei fondi dell’8xmille, quelli destinati alle “esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo”. Nel 2007, il vescovo Miccichè avrebbe intascato 117 mila euro attraverso assegni bancari, in parte incassati dal cognato Teodoro Canepa, e poi altri 203mila euro, “trattenuti da prelevamenti in contanti allo sportello“. Cinque anni fa i forestali di Trapani sequestrarono quindi dei beni artistici del valore di oltre tre milioni di euro, conservati dal prelato in una villa a Monreale. Un tesoretto fatto di una fontana del Seicento, un pianoforte del Settecento, un’anfora greca considerata di valore inestimabile, oggetti in avorio, crocifissi in legno e corallo, di cui l’imputato, tramite il suo difensore, continua a chiedere la restituzione. E pure l’acquisto dell’appartamento nella capitale, per cui gli inquirenti hanno però subito bloccato il preliminare di vendita, facendo si che l’immobile restasse di proprietà della diocesi di Trapani. Inquietanti infine i particolari emersi dalle indagini su chi sarebbe stato a conoscenza di quanto accadeva nella diocesi e avrebbe coperto il prelato.

IL PROCESSO. Il pm Sara Morri ha alla fine contestato a Miccichè di essersi appropriato di oltre mezzo milione di euro, per l’esattezza di 544mila euro, ma tutte le contestazioni precedenti il 7 ottobre 2017 sono ormai coperte da prescrizione e il giudice per l’udienza preliminare Samuele Corso non ha potuto far altro che rinviare il vescovo a giudizio solo per le restanti accuse e dunque per un ammanco di circa 300mila euro. Il processo inizierà il prossimo 1 ottobre. E la difesa già si prepara a dare battaglia. Il legale di Miccichè ha infatti sostenuto di aver giustificato circa 200mila euro del mezzo milione contestato, dimostrando, con documenti ottenuti direttamente dalla curia trapanese che buona parte delle operazioni bancarie contestate in fase di indagini non erano state utilizzate per fini personali, ma per spese destinate alla diocesi. Ha anche specificato che almeno 16 prelievi, su 46 inizialmente contestati, sono stati ritenuti legittimi e così anche l’emissione di due assegni, con cui vennero pagate delle fatture. E sul resto? Per la difesa mancano documenti.