Abercrombie sconfitta da un magazziniere

di Giuseppe Salvaggiulo per La Stampa

Il lavoro a chiamata, introdotto undici anni fa dalla cosiddetta legge-Biagi (a cui aveva lavorato il giurista ammazzato dalla Br e che fu poi approvata dal governo Berlusconi), è discriminatorio e quindi illegittimo se applicato con la sola motivazione dell’età del lavoratore inferiore a 25 anni. La sentenza della Corte d’appello di Milano, che ha ordinato la riassunzione di un magazziniere dell’azienda di abbigliamento Abercrombie&Fitch, sancisce un principio molto forte ed è destinata ad avere effetti più ampi del caso specifico.

I giudici milanesi si sono pronunciati sulla vicenda di Antonino, assunto nel dicembre 2010 dalla nota azienda americana, che un anno prima aveva aperto il primo negozio italiano, nel centro di Milano. Antonino comincia a lavorare nel magazzino di Carugate con un contratto a chiamata: quattro/cinque notti a settimana deve sistemare i vestiti e mantenere ordinati gli scaffali. Il contratto a chiamata, con cui viene assunto, è stato introdotto nel 2003: è un sistema meno oneroso e vincolante per l’azienda, ma si può usare solo in casi determinati dalla legge, uno dei quali è quello invocato per Antonino: «Alla data di oggi il candidato ha meno di 25 anni ed è disoccupato». Infatti ne ha 23 e mezzo.

Dopo un anno e mezzo, Antonino non viene più chiamato. Chiede notizie via e-mail e il responsabile dell’ufficio risorse umane gli risponde: «…a causa del venir meno del requisito soggettivo dell’età vado a confermarti che il tuo rapporto di lavoro con l’azienda è terminato». Antonino non ci sta: sostiene che gli avevano promesso tutt’altro: quando compi 25 anni, ti faremo un contratto part time. Invece l’hanno giubilato.

Antonino si rivolge al tribunale del lavoro, invocando una direttiva europea secondo la quale «è vietato qualsiasi trattamento sfavorevole nel rapporto di lavoro e nell’accesso al lavoro determinato dall’età del lavoratore, a meno che non sia giustificato da una finalità legittima, ivi comprese ragioni inerenti il mercato del lavoro, perseguite attraverso mezzi proporzionati e necessari». Il suo avvocato, Alberto Guarisio, sostiene che la legge italiana è contraria alla direttiva, perché consente di assumere i giovani con un contratto peggiorativo, solo per il fatto che sono giovani (il criterio aggiuntivo della disoccupazione è fittizio, poiché non si specifica se si tratta di disoccupazione di lunga durata e particolare gravità). E quindi illecito il contratto di Antonino, che deve tornare al lavoro con un contratto «normale», al pari dei colleghi «anziani».

Il giudice di primo grado rigetta la domanda: motiva che «è ben difficile non pensare che l’attuale situazione del mercato del lavoro non giustifichi una forma ridotta di impiego del lavoratore, seppure con modalità peculiari quale quello del lavoro a chiamata». Insomma: vista la crisi, meglio un lavoro qualsiasi che nessun lavoro. Così si giustificano «le peggiori regole di sfruttamento», obietta l’avvocato ricorrendo alla Corte d’appello.

Ieri la sentenza del collegio presieduto da Laura Curcio, che ribalta quella di primo grado e accoglie le ragioni di Antonino: dichiara la «natura discriminatoria del comportamento» di Abercrombie&Fitch e la condanna a riassumere il magazziniere con un regolare contratto part time, oltre a pagargli un risarcimento danni di 14.540 euro più interessi.