Aiuti umanitari fermi, ritardi nella riconsegna delle salme degli ostaggi deceduti e accuse reciproche tra Hamas e Israele. A Gaza la tregua resta appesa a un filo

Netanyahu accusa Hamas di ritardi nella consegna delle salme degli ostaggi. E per tutta risposta tiene chiuso il valico di Rafah

Aiuti umanitari fermi, ritardi nella riconsegna delle salme degli ostaggi deceduti e accuse reciproche tra Hamas e Israele. A Gaza la tregua resta appesa a un filo

Malgrado i ritardi di Hamas nella consegna delle salme degli ostaggi deceduti in questi due anni di guerra e quelli di Israele, che continua a tenere chiuso il valico di Rafah da cui dovrebbero passare gli aiuti umanitari, la fragile tregua nella Striscia di Gaza sembra reggere.

Come accade ormai da giorni, l’attenzione di tutti è concentrata sui corpi degli ostaggi deceduti. Gli Stati Uniti di Donald Trump, decisi a calmare l’ira del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu — che ha già tuonato contro i ritardi “inaccettabili”, avvertendo che potrebbero condurre a una “ripresa della guerra” — hanno fatto sapere che Hamas “continua a ripetere che intende rispettare l’accordo” di cessate il fuoco.

La mediazione degli Stati Uniti per calmare l’ira di Netanyahu

Un alto funzionario statunitense che segue da vicino il dossier ha spiegato che “c’è stata molta delusione e indignazione da parte di Israele quando sono stati restituiti solo quattro corpi, mentre i miliziani di Hamas avrebbero potuto semplicemente dire ‘stiamo procedendo’ nella restituzione dei corpi”.

Lo stesso consigliere di Trump, come riporta il Times of Israel, ha poi chiarito — nel tentativo di rassicurare il mondo arabo che da giorni ribolle — che il piano di pace non prevede alcun obbligo di abbandonare la Striscia per gli abitanti di Gaza. Anzi, ha sottolineato che l’idea è opposta: “I palestinesi saranno incoraggiati a rimanere nella Striscia”.

Si tratta, insomma, di una vera e propria inversione di marcia rispetto a quanto dichiarato a febbraio dallo stesso Trump, quando aveva proposto che gli Stati Uniti prendessero il controllo di Gaza e trasferissero la popolazione nei Paesi arabi vicini. Un’idea shock che aveva provocato la sommossa del mondo arabo e pesanti critiche da parte dell’Ue, convincendo il tycoon a rinunciare all’iniziativa.

Intanto, mentre le trattative per la fase 2 del cessate il fuoco non sono ancora iniziate ufficialmente, gli Usa e Israele hanno annunciato di aver avviato i lavori per la creazione di “zone sicure” all’interno delle aree di Gaza ancora controllate dall’esercito israeliano (Idf), dove potranno rifugiarsi “i civili palestinesi che temono ritorsioni da parte di Hamas”.

Netanyahu getta benzina sul fuoco: “La lotta non è ancora finita”

Se fin qui tutto sembra procedere — pur tra intoppi e tensioni — a mettere in dubbio la tregua è, come sempre, Benjamin Netanyahu. Il leader israeliano, ieri, durante la cerimonia commemorativa di Stato in onore dei soldati caduti nella guerra di Gaza, è tornato a respingere le accuse di genocidio mosse dall’Onu, da numerose organizzazioni umanitarie e da diversi leader mondiali.

“Due anni fa abbiamo ricevuto una sconvolgente illustrazione dell’espressione genocidio”, ha detto, riferendosi alle accuse rivolte a Israele, per le quali la Corte internazionale di giustizia ha emesso un ordine di arresto nei suoi confronti.

Per Netanyahu si tratta di accuse mosse nell’ambito dei soliti “complotti antisemiti” e la comunità internazionale, a suo avviso, dovrebbe “fare un passo indietro” rinunciando a perseguirlo. Ma non è tutto. Malgrado la tregua stia reggendo, il primo ministro ha ribadito — con parole preoccupanti — che “la lotta non è ancora finita, ma una cosa è chiara: chiunque alzi la mano contro di noi sa che pagherà un prezzo molto alto”. In chiusura del suo lungo intervento, si è detto “determinato a lavorare per la restituzione di tutti gli ostaggi, fino all’ultimo”.

Botta e risposta sugli aiuti umanitari

A creare ulteriore tensione è la mancata riapertura, prevista già da lunedì, del valico di Rafah. Quel piccolo lembo di terra che collega l’Egitto alla Striscia di Gaza è oggi il simbolo della paralisi umanitaria: centinaia di tir carichi di aiuti attendono da settimane il via libera israeliano per portare sollievo ai civili palestinesi.

Sul punto, il capo del Servizio d’informazione di Stato egiziano (Sis), Diaa Rashwan, ha confermato che “il valico di Rafah è pronto per tornare operativo”, ma che “è Israele a ritardarne l’apertura dal lato di Gaza”.

Come riporta l’emittente panaraba Al Arabiya, “sono in corso tentativi israeliani di creare problemi nella prima fase di attuazione dell’accordo”.
Un pressing che, tuttavia, non sembra aver sortito effetti: l’Idf ha ribadito che Rafah non riaprirà neanche domani, a causa di “complicazioni logistiche e di sicurezza”. In attesa della riapertura del confine con l’Egitto, l’esercito israeliano ha spiegato che gli aiuti dovranno entrare nella Striscia attraverso altri valichi, tra cui quello di Kerem Shalom.

Tutto risolto? Macché. Il portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), Adnan Abu Hasna, ha dichiarato che, nonostante l’entrata in vigore del cessate il fuoco, “l’Unrwa non è ancora riuscita a far entrare gli aiuti umanitari destinati all’enclave palestinese”.
Secondo Hasna, le autorità israeliane ne impediscono ancora l’ingresso e la distribuzione. “La guerra si è fermata, i bombardamenti sono cessati, ma purtroppo la sofferenza dei palestinesi continua”, ha concluso con amarezza.