Sui tavoli diplomatici si discute dell’ipotesi di una base militare statunitense al confine con Gaza, come se la tregua fosse un corridoio da amministrare dall’alto. Ma sul terreno i numeri rimangono quelli di una guerra che non si ferma. Hamas denuncia 282 violazioni della tregua in un mese e 242 palestinesi uccisi sotto il fuoco mentre il mondo parlava di “cessazione delle ostilità”. Almeno 1.800 persone risultano disperse tra le macerie. È una tregua che non protegge, ma contabilizza. Gli Houthi hanno annunciato la sospensione degli attacchi contro Israele e le navi nel Mar Rosso, precisando che riprenderanno se la guerra riparte. La tregua, dunque, non solo non è pace: è un equilibrio che si regge sulle dita, come un fiammifero acceso troppo vicino alla benzina. Basta poco per tornare al buio Sul fronte umanitario, 145 camion di aiuti al giorno attraversano i valichi. È una cifra che produce comunicati ottimistici, ma non abbastanza da sostenere due milioni e mezzo di persone. L’acqua resta razionata, gli ospedali sono senza farmaci, le liste di pazienti che necessitano evacuazione superano le 16.000 persone. Anche quando le bombe tacciono, il tempo continua a uccidere. In Israele, mentre si parla di “stabilizzazione”, la Knesset ha dato prima lettura alla pena di morte per chi viene definito “terrorista”. Parallelamente avanza una stretta sui media stranieri. Chi racconta la guerra diventa, per definizione, sospetto. La narrazione è un campo di battaglia come gli altri. E poi c’è la Cisgiordania, dove l’attenzione internazionale scivola via come sabbia. Dal 7 ottobre 2023 sono stati uccisi 216 minori palestinesi dalle forze israeliane e dai coloni armati. Quest’anno il numero di bambini palestinesi detenuti è il più alto dal 2016. Gaza al centro, Cisgiordania ai margini: ma la frattura è la stessa.
La Sveglia