L’anno che si conclude per il governo Meloni, in politica estera, è stato l’anno dell’immobilismo mascherato dagli equilibrismi della premier. Giorgia Meloni ha avuto l’ambizione di fare da pontiere sui diversi dossier, a partire dai dazi e dall’Ucraina, tra l’Europa di Ursula von der Leyen e l’America dell’amico Donald Trump. Ma ha finito solo per compiacere Trump ed essere più di una volta esclusa in Europa dai big.
Altro che pontiere. Per non scontentare nessuno, l’Italia di Meloni ha contato meno
A giocare a suo sfavore anche l’energia che ha dovuto mettere per tenere insieme la sua coalizione. Il problema è strutturale a Bruxelles: la maggioranza litigiosa a Roma, politicamente è divisa in famiglie europee distanti tra loro. Meloni e FdI sono nei Conservatori, Antonio Tajani e Forza Italia stanno nel Ppe, mentre la Lega di Matteo Salvini è in una galassia sovranista.
Dall’Ucraina ai dazi
La crepa più visibile del 2025 resta l’Ucraina. Il sostegno a Kiev è stato confermato, ma trasformato in un logorante braccio di ferro domestico. A novembre Salvini ha frenato sugli aiuti militari all’Ucraina evocando la “corruzione”, il collega della Difesa Guido Crosetto ha replicato che “non si giudica un Paese per due corrotti”. Il dodicesimo pacchetto di aiuti a Kiev alla fine è stato approvato lunedì dal Consiglio dei ministri, con una mediazione che insiste oltre che sugli aiuti militari – fatti ingoiare a Salvini – anche su componenti logistiche e civili. In mezzo, Tajani appare un ministro degli Esteri più impegnato a spegnere incendi che a costruire un’agenda. La sua autoironia – “sono il ministro degli Esteri più sfigato della storia” – è diventata la sintesi involontaria di un ruolo percepito come difensivo. La Lega, peraltro ieri, in sintonia con i sovranisti europei, ha sparato a zero contro la possibile adesione di Kiev all’Ue.
Il rapporto con Trump, nel 2025, ha aggiunto un ulteriore strato di ambiguità. Sui dazi Meloni ha definito “sbagliata” l’introduzione di tariffe Usa contro l’Ue, ma nello stesso tempo, alla Casa Bianca, ha detto di essere “sicura” che si sarebbe arrivati a un accordo, in un clima di evidente sintonia politica e personale. Ne è uscita una postura più compiacente che negoziale: fermezza “senza escalation” e scarsa capacità di trasformare la relazione in risultati misurabili per le filiere europee ed italiane. Ai diktat di Trump sul riarmo, poi, Meloni ha subito obbedito, promettendo al verice Nato di giugno di portare le spese per la difesa al 5% del Pil entro il 2035.
Da Gaza agli asset russi
Lo stesso schema si è visto su Gaza. Presa dall’ansia di non incrinare il rapporto con Washington, pur criticando Israele, Meloni non ha mai espresso vere parole di condanna nei confronti del premier Benjamin Netanyahu. L’Italia ha scelto quasi sempre la via dell’appello umanitario e della formula diplomatica, evitando di trasformare la critica in iniziativa che spostasse incentivi e costi. E ha considerato come un attacco politico nei confronti del suo governo la missione della Flotilla per portare aiuti umanitari a Gaza.
La stessa cautela si è vista sul tema degli asset russi congelati. Meloni ha detto che trovare un meccanismo legale per usarli a favore dell’Ucraina restava “far from easy” e ha chiesto chiarimenti sui rischi di ritorsione e sui possibili oneri. Nel dibattito, fonti ucraine hanno denunciato pressioni statunitensi perché l’Ue abbandonasse l’idea. Meloni si è fattta portavoce di queste pressioni.
Per finire col Mercosur
Infine Mercosur: anche qui il 2025 racconta un’Italia “mezzo dentro e mezzo fuori”. Meloni ha parlato di firma “prematura”, mentre Tajani ha sostenuto che, risolti i nodi agricoli, l’accordo è una scelta che l’Italia condivide “al 100% in linea di principio”. Roma, in definitiva, non ha mai guidato i processi, piuttosto li ha rallentati in attesa di garanzie che servissero anche a non aprire un fronte interno con il proprio elettorato, in questo caso con il mondo agricolo. Il bilancio di fine 2025, quindi, è politico prima che diplomatico: non basta scegliere un campo, bisogna saperlo interpretare con coerenza. Nel 2025 l’Italia ha spesso scelto di non scontentare nessuno, e ha finito per contare meno.