Altro che vittoria, a Renzi resta un pugno di mosche. Ormai irrilevante nella nuova maggioranza ha fallito l’obiettivo di rompere il patto tra M5S e Pd

Altro che vittoria, a Renzi resta un pugno di mosche. Ormai irrilevante nella nuova maggioranza ha fallito l’obiettivo di rompere il patto tra M5S e Pd

Matteo Renzi viene celebrato su molti media come il vincitore della partita politica appena conclusasi. Grande giocatore di poker, grande giocatore di scacchi, Grande Giocatore, “volpe dell’Arno”. Manco fosse Rommel, Grande Astuto etc. Indubbiamente se Renzi aveva come obiettivo l’abbattimento del governo Conte c’è riuscito, quindi ha vinto. Ma è stata vera vittoria? Perché se consideriamo quello che è successo immediatamente dopo, qualche dubbio viene. Intanto Giuseppe Conte ieri è stato, in un certo senso, incoronato leader dei Cinque Stelle dallo stesso Movimento dopo che lui, umilmente, come fece Augusto nei confronti del Senato, si era dimesso dando la sua disponibilità.

E quindi ha ricompattato il Movimento stesso che prima di questa vicenda era diviso e percorso da varie correnti carsiche. Inoltre Conte è naturalmente candidato a fare da federatore del centrosinistra, cioè da ponte tra il Partito democratico, Leu e i Cinque Stelle. Un ruolo che gli è stato riconosciuto dal Pd e a cui Conte ha risposto di essere favorevole e disponibile, magari da ministro in un governo politico che è, si badi bene, la condizione che ha posto Luigi Di Maio per appoggiare il governo Draghi. Poi c’è la questione della perdita di ruolo di lui e del suo partito, Italia Viva.

Se prima si era furbamente incuneato nella maggioranza e con un 3% era diventato l’ago della bilancia, con due ministeri ed un importante sottosegretariato e la possibilità di dire la sua sulle prossime 300 nomine alle controllate statali ora ha perso tutto. Si è tolto una soddisfazione, defenestrare Conte, ma ha perso ogni influenza perché un governo tecnico o tecnico-politico non ha più bisogno dei voti del suo partito o se ne avesse bisogno non è comunque più l’ago della bilancia. Quindi alla fine della storia non è che il senatore toscano stringa qualcosa di diverso da un bel pugno di mosche. Ha pagato caro il suo ego, la sua permalosità, la sua eterna suscettibilità. Ed in questo non si è interessato affatto ai suoi, vittime sacrificali destinate a uscire definitivamente dal quadro politico istituzionale. E poi c’è un altro punto.

Renzi è ora in completa rotta di collisione con il suo ex partito, quello democratico. Lo sgambetto doppio che gli ha tirato, elezioni nelle sue file e immediata scissione dopo l’appoggio al governo giallorosso, non sono cose che il Nazareno dimenticherà tanto facilmente. E la proverbiale vendetta degli ex comunisti e degli ex democristiani si abbatterà sul rottamatore in maniere diverse, che narrano di storie differenti, ma ugualmente pesanti. Nicola Zingaretti e Dario Franceschini non sono persone che dimenticano facilmente e non dimenticheranno.

D’altro lato Renzi sa fare bene i suoi conti e sa che è politicamente finito perché alla prima elezione sparirà dalla scena politica vuoi perché il suo è un micro partito vuoi perché gli italiani gliela faranno pagare per avere scatenato una crisi simile in piena pandemia e con un piano vaccini alle prese con mille difficoltà. E’ per questo che diciamo che alla fine la vittoria di Renzi è stata una vittoria di Pirro che a ben guardare non è neanche una vittoria perché ha perso tutto se si eccettua la soddisfazione di aver abbattuto Conte e ricorda un po’ il marito che per fare dispetto alla moglie si taglia i gioielli di famiglia.