Uno dei primi temi con cui mi sono confrontata seguendo il corso universitario di filosofia dell’arte è stato il tratto universale dell’opera dell’arte. Cioè – per capirci – il fatto che la produzione artistica – dalle sculture classicheggianti alle inafferrabili performance concettuali, passando per qualsiasi altro medium espressivo in qualsiasi epoca storica – parlasse a tutti, superando barriere territoriali, linguistiche, culturali.
Questa decisiva caratteristica interviene indirettamente sulla percezione del tema “proprietario” dell’opera stessa vissuta come un bene appartenente al patrimonio collettivo, qualcosa che è di tutti. Mio, tuo, loro. Semplicemente: nostro. Ma che materialmente non possediamo in prima persona, se non come esperienza conoscitiva. Fatta eccezione, è evidente, per i players del mercato dell’arte che vivono una dimensione settorializzata – a tratti settaria – e che non include i più.
Decisiva la presenza di norme a tutela del bene: una giungla di cavilli che prevedono, per portare un esempio di questi giorni, che l’utilizzo dell’immagine dell’opera sia regolamentato dalla richiesta di autorizzazioni e dal pagamento dei diritti se le finalità sono di ordine commerciale. E fu così che gli Uffizi diffidarono Pornhub.
CLASSIC NUDES. Il sito porno più cliccato al mondo mostra Cicciolina interprete della Venere botticelliana – dalla conchiglia aperta fuoriesce la platinata attrice con una calzamaglia nude look che poco lascia immaginare delle, peraltro già note, fattezze di Ylona – mentre il resto della sceneggiatura è fatto di pratiche e posizioni note ai frequentatori del portale. E non solo a loro. L’emblematico video utilizzato con scopi promozionali è solo uno dei tanti della campagna “Pornhub classic Nudes”.
La cosa più interessante non è infatti la diffida che gli Uffizi hanno destinato a Pornhub, ma il dibattito che scaturisce da questa nuova tendenza del porno che – viene da sorridere – ha anche un tratto divulgativo. In tanti potranno, partendo dalla fruizione del porno, risalire all’opera d’arte che altrimenti a loro resterebbe sconosciuta.
E pure c’è già chi è pronto a dire che questa operazione commerciale è eticamente scorretta. Ma il gusto – fa bene ricordarlo – non può essere indagato con le categorie del giudizio: ciò che piace soggettivamente non deve mai essere qualificato come “giusto” o “sbagliato”; “buono o “cattivo”, semplicemente: piace. E non serve scomodare Immanuel Kant e la sua “Critica del giudizio” per comprenderlo, basterebbe anche la mia nonna con un proverbiale “non è bello ciò che è bello è bello ciò che piace”.
Eppure divertirsi a immaginare la “Maya Desnuda” che pratica la fellatio, o Leda che sostituisce il cigno con un sex toy fa scandalo e apre il dibattito. Questo perché conferiamo all’arte, in una sorta di automatismo collettivo, una sua sacralità confinata alla cornice istituzionale della galleria o del museo – le nostre laiche chiese – e urta la sensibilità immaginare che finisca nell segretezza di un boudoir in cui si pratica onanismo, o in cui ci si trastulla in fantasie “peccaminose”.
ETICA E LIBERTÀ. Esiste dunque un’innegabile e latente questione etica nell’uso di queste immagini che gli Uffizi però – correttamente – si sono ben guardati al momento di sollevare perimetrando la disputa ai soli diritti commerciali. Io, invece, vorrei dire a tutti coloro che si sentono urtati al solo pensiero che la Nappi possa essere la Gioconda, o Siffredi il protagonista di una orgiastica “Zattera della Medusa” – che la mescolanza tra arte e vita, sacro e profano, alto e basso è la cosa più preziosa che abbiamo. E un grande tributo alla libertà di giocare.