Banche popolari in rivolta. Dialogo difficile sulla riforma. L’associazione degli istituti spara sul decreto. I rischi di regalare gli istituti alla finanza estera

Fare le riforme non è mai indolore. Anche in economia. Il cambiamento inevitabilmente apre nuovi scenari e chiude precedenti rendite di posizione. Esattamente quello che sta accadendo con le banche popolari, che ancora frastornate per il colpo assestato dal governo adesso reagiscono. E preparano una battaglia senza quartiere alla riforma. La mossa di Palazzo Chigi – che manda in archivio il sistema del voto capitario nelle assemblee, cioè una testa un voto indipendentemente dal numero di azioni possedute – farà saltare tutte le attuali governance dei dieci maggiori istituti.

RISIKO BANCARIO
Addio così ai manager imposti dai sindacati, con il sostegno dei piccoli poteri locali (dalla politica alla Chiesa) e strada spianata all’ingresso dei grandi capitali, con l’inevitabile ingresso di queste realtà nel futuro risiko bancario. Uno scenario che l’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari ha preso di petto definendo il decreto legge con la riforma del settore approvato dal governo “gravido di conseguenze negative sul risparmio nazionale e sul credito alle famiglie e alle piccole e medie imprese, per un Paese, come il nostro, privo d’investitori di lungo periodo in aziende bancarie”. Ieri in un durissimo comunicato Assopopolari ha affermato che “non deve esserci una politica economica finalizzata esclusivamente a trasferire la proprietà di una parte rilevante del sistema bancario italiano alle grandi banche internazionali”. Per queste ragioni “l’associazione e le Banche Popolari non lasceranno nulla di intentato, perché il decreto legge venga meno e l’ordinamento giuridico continui a consentire a tutte le banche popolari di mantenere la propria identità”.

VALORE TERRITORIALE
Il sistema si rende conto però di aver goduto di una situazione di favore, garantita per anni proprio dalla sua associazione guidata da Giuseppe De Lucia Lumeno e pertanto si è già impegnato – in caso di successo nel far cambiare idea a Renzi – a continuare “con maggiore urgenza e determinazione a perseguire una ulteriore evoluzione del proprio ordinamento cooperativo e a proseguire un processo di concentrazione, che si è dimostrato di saper praticare in passato in misura, più elevata rispetto al resto del sistema”. Più di un’apertura al dialogo, nell’interesse di preservare quel modello di banca territoriale che negli anni della grande crisi del credito ha salvato gran parte del tessuto produttivo del Paese.