Bloccata la Marcia Globale per Gaza, l’Egitto si inchina a Israele e l’Occidente sta a guardare

L’Egitto blocca la protesta umanitaria internazionale sotto pressione israeliana. Mentre l'Occidente si volta dall'altra parte

Bloccata la Marcia Globale per Gaza, l’Egitto si inchina a Israele e l’Occidente sta a guardare

La Global March to Gaza, la più grande mobilitazione umanitaria internazionale organizzata negli ultimi anni, è stata di fatto soffocata sul nascere. Oggi, 12 giugno 2025, decine di attivisti provenienti da almeno 80 paesi sono stati arrestati nei loro hotel o respinti agli aeroporti egiziani. Il Ministero degli Esteri del Cairo ha giustificato il blocco con motivi di sicurezza e la mancanza di permessi per accedere al Sinai, ma la sequenza temporale degli eventi e le dichiarazioni ufficiali israeliane raccontano un’altra storia.

Poche ore prima, l’11 giugno, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz aveva dichiarato pubblicamente di aspettarsi che l’Egitto “impedisse ai manifestanti jihadisti di avvicinarsi a Rafah”, definendo la marcia una “provocazione” e “un pericolo per i soldati israeliani”. Il giorno dopo, l’Egitto ha risposto con una retata: fermi, passaporti sequestrati, espulsioni immediate. Tra i rimpatriati, anche l’attivista italiana Antonietta Chiodo: “Stanno rastrellando i nostri attivisti come delinquenti. Chi tace, è complice”.

Il convoglio Al-Samoud bloccato prima del confine

Nel frattempo, il convoglio terrestre “Al-Samoud” (resilienza), partito il 9 giugno dalla Tunisia con oltre mille attivisti del Maghreb, è rimasto intrappolato in Libia. Dopo l’accoglienza popolare a Tripoli, Misurata e Bengasi, i partecipanti speravano di attraversare il valico di Sallum per unirsi alla marcia al Cairo. Invece, si sono trovati davanti un muro: nessun permesso, nessuna apertura. Non è un caso: l’11 giugno, in parallelo alla richiesta di Katz, il Ministero degli Esteri egiziano ha diffuso una nota in cui accoglieva “simbolicamente” le delegazioni, imponendo però rigide regole di accesso al Nord Sinai, classificato come zona militare.

Il convoglio, pensato come un ponte umano tra l’Africa e Gaza, non ha mai avuto una reale possibilità di passare. Nessun contatto diretto, nessuna risposta ufficiale da parte del Cairo, solo ostacoli burocratici e retorica difensiva. Fonti interne parlano di una collaborazione silenziosa ma attiva tra i due governi: Israele ha dettato la linea, l’Egitto l’ha eseguita.

Freedom Flotilla: l’altro fronte respinto

In contemporanea, il mare ha conosciuto la stessa sorte. Il 9 giugno, la nave “Madleen” della Freedom Flotilla è stata intercettata in acque internazionali dalla marina israeliana. A bordo c’erano attivisti come Greta Thunberg e l’europarlamentare Rima Hassan. Tutti arrestati, interrogati, espulsi. A Thunberg è stato mostrato un video delle atrocità di Hamas, come punizione simbolica. Il messaggio è stato chiaro: chi prova a sfidare l’assedio, anche con una barca di aiuti, sarà trattato come un nemico dello Stato.

La risposta repressiva su tutti i fronti – terra, mare e cielo – rivela la portata della paura israeliana verso una mobilitazione popolare che rompe l’inerzia diplomatica. Il coordinamento tra Flotilla, marcia terrestre e convoglio africano avrebbe potuto creare un cortocircuito politico, soprattutto ora che Gaza è “il luogo più affamato della Terra”, come denuncia l’ONU.

Al Sisi esegue, l’Occidente tace

Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si è posto ancora una volta come garante della stabilità per conto terzi, sacrificando ogni apparenza di sovranità a favore della cooperazione con Israele. Dietro la maschera delle “preoccupazioni di sicurezza”, il Cairo ha risposto con durezza all’unica cosa che oggi ancora può disturbare l’equilibrio diplomatico: la solidarietà civile.

La protesta internazionale – che avrebbe dovuto culminare con un accampamento pacifico a Rafah tra il 15 e il 19 giugno – è stata bloccata senza che alcun governo europeo abbia alzato la voce. L’Italia si è limitata a una nota del M5S che chiede chiarimenti a Tajani sul rimpatrio forzato dei connazionali.

Una domanda aperta

I fatti sono chiari: migliaia di attivisti si erano mobilitati senza armi, con aiuti umanitari e un programma trasparente. Sono stati fermati, deportati, delegittimati. Se l’assedio di Gaza è definito “una punizione collettiva”, ora lo è anche la repressione di chi prova a portare soccorso.

Israele non ha solo chiuso le porte a Gaza. Ha ottenuto che anche l’Egitto diventasse custode del blocco. E l’Occidente ha chinato il capo. Chi resta in piedi, oggi, lo fa camminando verso un confine che non si vuole far vedere.