Buchi lavorativi e contributivi, gli Italiani sospesi: il tempo tra un impiego e l’altro si allunga

Nei Curricula 2025 il 32% ha buchi di almeno un anno: tempi di rientro più lunghi del Covid, continuità in calo e salari sotto pressione

Buchi lavorativi e contributivi, gli Italiani sospesi: il tempo tra un impiego e l’altro si allunga

Il fatto è netto e misurabile: nel 2025 quasi un terzo dei curriculum italiani presenta un’interruzione di lavoro di almeno dodici mesi. Il 32%, per la precisione. A dirlo è il Rapporto sui gap di carriera di LiveCareer, basato su sette milioni di CV compilati tra il 1° gennaio 2020 e il 30 giugno 2025. Il confronto con il 2020 mostra un peggioramento: allora i buchi di un anno erano il 22% e i profili senza pause il 61%, oggi scesi al 50%. La continuità non è più la norma, con una quota di inattività lunga che supera gli anni del Covid.  

I numeri non riguardano solo la lunga durata. Crescono anche i vuoti “medi”: il 39% dei professionisti dichiara uno stop di almeno sei mesi. Nella metà dei CV con interruzioni compaiono poi pause brevi, sotto il mese: mercato più mobile e più fragile, il passaggio da un contratto all’altro è un corridoio. Nel 2025 le interruzioni prolungate toccano il picco: si erano ridotte lievemente nel 2024, poi sono tornate a crescere. È l’eredità di shock non esauriti: licenziamenti, ristrutturazioni, la «recessione dei colletti bianchi».    

La mappa delle carriere discontinue

Se metà dei candidati ha almeno una pausa e solo uno su due mantiene un percorso ininterrotto, la soglia della “normalità” cambia. La linearità non è più il lasciapassare implicito per essere letti. Continuare a filtrare i profili penalizzando i buchi significa scartare una maggioranza statistica. I dati, raccolti su scala nazionale con metodologia dichiarata e replicabile, incrociano qualifiche e date di impiego e, per evitare duplicazioni, considerano per ogni utente solo il CV più aggiornato.  

La lunga attesa tra due impieghi – la disoccupazione “tra un lavoro e l’altro” – produce effetti prevedibili: erosione delle competenze percepite, rientri con contratti più deboli, compressione salariale. Esiste però anche un’altra faccia: una parte di quelle pause è tempo attivo, tra formazione, assistenza, riqualificazione. Lo riassume la career expert Jasmine Escalera: «I periodi di pausa nella carriera sono ormai una realtà consolidata nel mondo del lavoro di oggi», per cui i datori «dovrebbero superare i vecchi pregiudizi», puntando su competenze e potenziale.  

Oltre la pandemia: che cosa cambia davvero

Chiedere ai candidati di occultare i vuoti è un anacronismo. Serve trasparenza su cause e apprendimenti, ma soprattutto pratiche di selezione coerenti con il mercato reale. La fotografia più aggiornata – comunicata il 10 luglio 2025 e ribadita nella nota ai media del 2 settembre – parla di una tendenza consolidata: i gap di almeno un anno crescono lungo il quinquennio e raggiungono il massimo nel 2025, mentre cala la quota di percorsi senza interruzioni.    

Qui la leva non può essere solo individuale. Se le pause tra un contratto e l’altro diventano strutturali, vanno accorciate con strumenti che funzionino davvero: orientamento e intermediazione efficaci, formazione continua accessibile, incentivi alla stabilizzazione di lungo periodo, servizi di cura che non espellano chi se ne fa carico. L’analisi dei CV è un indicatore anticipatore: quando i percorsi cambiano, ordinamenti e pratiche devono adeguarsi in fretta.

Il quadro finale è chiaro: più pause, più lunghe, più visibili. La generazione che entra e quella che rientra trovano un mercato che invoca resilienza ma fatica a riconoscerla. Tocca ai candidati raccontare il tempo sospeso con precisione; alle imprese aggiornare i criteri; alla politica riportare al centro la continuità occupazionale. I curriculum sono il diario collettivo del lavoro: oggi dicono che l’attesa tra due impieghi non è un inciampo, è la regola del gioco. Ignorarla significa ampliare la disuguaglianza.