Caporalato killer. Ancora 3.500 braccianti nei ghetti di Gioia Tauro. Lavorano senza alcun tipo di contratto sette persone su dieci

A otto anni dalla rivolta di Rosarno nella piana di Gioia Tauro restano invariate le condizioni di vita e di lavoro nei campi dove dilaga il caporalato

A otto anni dalla rivolta di Rosarno nella piana di Gioia Tauro restano invariate le condizioni di vita e di lavoro. Almeno 3.500 braccianti stagionali che forniscono manodopera a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi vivono in insediamenti informali, tendopoli o capannoni abbandonati. La denuncia è contenuta nel report realizzato da Medici per i diritti Umani (Medu) che da cinque anni con una clinica mobile segue le condizioni di salute degli “schiavi”. Il “ghetto” più grande è quello della zona industriale di San Ferdinando che, in un capannone e nella vecchia fabbrica adiacente, accoglie il 60% dei lavoratori stagionali della zona tra cumuli e roghi di rifiuti. Medu lì ha curato 484 persone: si tratta di giovani lavoratori con un’età media di 29 anni, provenienti dall’Africa sub-sahariana, tra cui un centinaio di donne dalla Nigeria. Ma accanto alle precarie condizioni di lavoro, sono quelle di vita, a pregiudicare la salute fisica e mentale degli stagionali: le patologie più frequenti riguardano l’apparato respiratorio e digerente, in alcuni casi i medici quest’inverno hanno riscontrato principi di congelamento degli arti. Solo 3 persone su 10 lavorano con un contratto, le altre vengono pagate a cottimo o a giornata, tramite caporali. “In otto anni – sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty – nulla è cambiato ma è cambiato il clima che c’è intorno all’immigrazione: la campagna elettorale è stata intrisa di xenofobia e di messaggi d’odio. Dopo le elezioni il tema è sparito”.