Le ultime rivelazioni giornalistiche sulle carte dell’inchiesta del Tribunale dei Ministri parlano chiaro: il governo italiano sapeva fin dal primo momento della cattura di Najeem Osama Almasri, generale libico ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità, e quella di non collaborare con la giustizia internazionale è stata una scelta politica. Lo ha fatto in silenzio, con cautela, usando canali criptati come Signal, e mentendo poi al Parlamento. Carlo Nordio, ministro della Giustizia, ha affermato che il suo dicastero fu informato solo il 20 gennaio. Ma le email interne dicono il contrario: già il giorno prima, domenica 19, la sua capo di gabinetto riceveva comunicazioni dettagliate sul fermo e raccomandava “massimo riserbo e cautela”.
Il fermo di Almasri, effettuato dalla Digos di Torino, avrebbe potuto essere regolarizzato. C’era tutto il tempo. Invece è stato scarcerato e riconsegnato ai libici con un volo di Stato. La versione ufficiale ha retto per qualche settimana, ma ora crolla sotto il peso delle nuove rivelazioni di stampa. Nell’inchiesta, oltre a Nordio, nei confronti del quale si iniziano ad alzare richieste di informative urgenti da parte delle opposizioni – per ora rispedite al mittente, perché secondo il ministro Luca Ciriani “ci vuole tempo” – sono coinvolti a vario titolo anche la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. I reati ipotizzati sono favoreggiamento e peculato. Per Nordio anche l’omissione d’atti d’ufficio.
Caso Almarsi, smentita la versione di Nordio: le opposizioni protestano
La vicenda va ben oltre la sfera giudiziaria. Se le accuse fossero confermate, l’Italia avrebbe violato il proprio obbligo di cooperazione con la giustizia internazionale, proteggendo un criminale accusato di stupri e torture su minori. Le opposizioni – da Debora Serracchiani a Riccardo Magi, da Chiara Appendino a Nicola Fratoianni – hanno chiesto le dimissioni immediate del Guardasigilli, accusandolo di aver “mentito al Parlamento”. “Oltre ogni decenza”, ha detto il dem Gianassi. “Spudorato favoreggiamento di un violentatore”, ha aggiunto il M5S. E ancora: “Una vergogna orchestrata da Chigi”, secondo Avs. “Un film horror con Meloni regista”, nelle parole della stessa Appendino.
Mentre Nordio tace e Meloni finge di non sentire, l’ex premier Matteo Renzi affonda: “Meloni ha mentito da Chigi, Nordio in Aula. È la prova che il governo è sotto ricatto dei torturatori”.
Intanto, la diplomazia crolla. Proprio in questi giorni Piantedosi è stato respinto come “persona non gradita” all’aeroporto di Bengasi. Umiliato da quello stesso regime con cui aveva appena sigillato l’ennesimo accordo sulle frontiere. Il paradosso è servito: mentre l’Italia rimanda a casa un macellaio per compiacere un governo libico non riconosciuto, quel governo umilia pubblicamente l’Italia. Se è una strategia, è fallita. Se è ingenuità, è colpevole.
Il caso Almasri segna un punto di non ritorno. Non si può mentire al Parlamento. Non si può piegare lo Stato di diritto per compiacere una milizia. Non si può usare un volo di Stato per riconsegnare un torturatore. E non si può rimanere al proprio posto, fingendo che nulla sia accaduto. La credibilità internazionale è stata dilapidata. L’indipendenza della magistratura è stata ignorata. La Costituzione è stata tradita.
La posta in gioco è più alta del futuro di un singolo ministro. In ballo c’è il ruolo dell’Italia nel sistema di giustizia internazionale, l’affidabilità delle sue istituzioni, la trasparenza dell’azione governativa. La scelta di occultare, manipolare, temporeggiare – e mentire – non può passare sotto silenzio. Le dimissioni non sarebbero un gesto politico: sarebbero il minimo sindacale di igiene democratica.