Cazzola: assegni fuori misura. Rotto il patto tra generazioni

di Vittorio Pezzuto

La pensione «non è un giustiziere che arriva nell’ultima stagione della vita a porre riparo ai torti e a riportare la giustizia», osserva Giuliano Cazzola, responsabile nazionale dell’area welfare di Scelta civica e tra i massimi esperti del nostro sistema previdenziale. «Esistono differenze nelle pensioni perché ve ne sono state durante la vita lavorativa» spiega. «Chi è andato in pensione con mille euro mensili si è avvalso, in questi anni, del sistema retributivo come chi c’è andato con un assegno di tremila. L’importante è valutare se nel secondo caso vi è corrispondenza o meno con i contributi versati, ovvero se la discrepanza è eccessiva perché quasi tutti dal retributivo hanno goduto di una rendita di posizione. Poi, certo, si può benissimo chiedere un contributo di solidarietà ragionevole e temporaneo a chi ha un trattamento pensionistico più elevato, ma non cadiamo prigionieri di un egualitarismo beota. Quanto agli interventi, oltre a misure temporanee di solidarietà ce ne potrebbero essere alcune di carattere strutturale…».
Quali?
«Premesso che con l’andata a regime del sistema contributivo si risolverà anche la questione delle pensioni d’oro – perché ognuno otterrà in ragione di quanto versato all’interno di un massimale retributivo e contributivo – nella fase di transizione si possono adottare misure di carattere strutturale e permanente, perfettamente compatibili con i diritti acquisiti e quindi sostenibili al cospetto del giudice delle leggi. In primo luogo, si potrebbe intervenire sui trattamenti più elevati in essere rimodulando al ribasso la rivalutazione automatica al costo della vita. Oggi, in condizioni di normalità (la legge di Stabilità inserirà probabilmente delle modifiche) e senza blocchi temporanei, le aliquote in rapporto alle fasce di reddito sono: una del 100% dell’inflazione fino a 1.400 euro mensili; un’altra del 90% per la fascia da 1.400 a 2.400 euro; oltre tale soglia opera l’aliquota del 75% sulle ulteriori quote di pensione. Basterebbe allora introdurre, magari per le fasce superiori a 5.000 euro mensili lordi, un’aliquota più bassa (ad esempio del 50%) e scendere ancora di più (al 30%) per la rivalutazione di fasce ancor più elevate. L’altro provvedimento – da applicare sulle nuove prestazioni – riguarda una rimodulazione in discesa dei rendimenti, ora ragguagliati al 2% per ogni anno di anzianità fino al massimale di circa 50mila euro lordi annui. Al di sopra di tale soglia il rendimento discende gradualmente fino allo 0,90%. Nulla vieta che si individuino altre fasce più alte a cui applicare un rendimento inferiore, fino allo 0,50% o addirittura allo 0,30%.
Perché allora non chiedere un contributo di solidarietà anche alle pensioni baby?
Sono 500mila (in prevalenza nel pubblico impiego), hanno un costo di 9,5 miliardi l’anno e vengono percepite da e per decenni. Si potrebbe prevedere un piccolo taglio temporaneo sulla differenza tra l’importo dell’assegno e il trattamento legale minimo. Con maggior profitto per le casse pubbliche di quello derivante dagli interventi sulle pensioni d’oro.
È corretto definire “d’oro” una pensione di 3mila euro?
Si tratta di un importo lordo, per cui mi sembra azzardato scomodare questo prezioso metallo.
La Consulta ha dichiarato incostituzionale lo stop alle indicizzazioni deciso nel luglio 2011 dal governo Berlusconi e la restituzione pesa adesso sulle casse pubbliche per circa 80 milioni di euro. Non pensa che possa esservi stato un conflitto d’interesse degli stessi giudici con la materia che stavano giudicando?
Può darsi. Anche perché la Corte ha innovato una giurisprudenza costante tenuta in altri casi. Non è la prima volta che viene previsto un contributo di solidarietà e la Corte ha sempre preteso che il prelievo fosse ragionevole e temporaneo. In questa circostanza è andata oltre. La cifra da restituire però dimostra che quelli che annunciano entrate favolose dai tagli alle pensioni d’oro o sono dei demagoghi o hanno dei problemi con la matematica.
Molti nonni con la loro ‘ricca’ pensione riescono a mantenere figli e nipoti. Non si tratta di una sorta di perverso welfare all’italiana che a lungo andare si ripercuoterà sulle future generazioni?
«Ha ragione. Nel privato si realizza una sorta di legge di contrappasso di quanto avviene del pubblico. I giovani non trovano lavoro o se lo trovano devono sopportare dei tagli importanti sulla loro busta paga per finanziare lo stock delle pensioni in essere, essendo consapevoli del fatto che il loro trattamento sarà peggiore di quello che loro sono chiamati a garantire ai padri e ai nonni. Non dimentichiamo la trappola del finanziamento a ripartizione. I lavoratori con i loro contributi si assicurano dei diritti al pensionamento, ma l’ammontare versato viene usato per pagare le pensioni in essere. A loro lo Stato promette che quando verrà il loro turno ci saranno altri lavoratori pronti ad onorare quell’impegno. Il fatto è che questo patto intergenerazionale forzoso è saltato per motivi economici, occupazionali e demografici. Tornando al punto della domanda, se è vero che i pensionati aiutano i figli e i nipoti non può essere vero che sono in larga misura poveri in canna. Nessun pasto è gratis».