Come è cambiata l’industria della musica nell’era dello streaming. Il Parlamento inglese vuole ripensare il value gap

La notizia è di pochi giorni fa ed è piuttosto interessante. Il Parlamento inglese ha dato il compito alla propria Commissione per il digitale, la cultura, i media e lo sport (DMCS) di avviare un’indagine sull’aspetto economico dello streaming musicale. Il Presidente della Commissione DMCS, Julian Knight, ha, tra l’altro, dichiarato che “ci dobbiamo chiedere se i modelli di business utilizzati dalle principali piattaforme di streaming siano equi per gli autori e gli artisti che forniscono il materiale”. Un punto nodale nella grande e controversa tematica musica/Rete. Al riguardo, è forse opportuno fare un po’ di storia.

Uno dei primi settori ad essere stato totalmente rivoluzionato dall’avvento della Rete è stata proprio l’industria (intendendo il termine in una accezione molto ampia) della musica. All’inizio si è avuto il boom dello streaming e del downloading illegale e l’esplosione della pirateria in Rete. Qualcosa che è anche simbolicamente riassunto nell’epopea di Napster il primo sistema “peer to peer” di massa che divenne disponibile nell’estate del 1999; Napster era un programma di scambio e condivisione di file musicali che, almeno all’origine, ignorava i diritti dei creatori della musica, per questo fu messo sotto processo e nel luglio 2001 un giudice americano ne ordinò la chiusura imponendo anche un pagamento di 26 milioni di dollari come risarcimento delle violazioni del passato. Seguirono una serie di vicissitudini, tra cui un tentativo di vendita alla tedesca Bertelsmann AG che non andò in porto, fino alla liquidazione nel settembre del 2002.

La seconda rivoluzione portata all’industria musicale dalla Rete è stata poi quella di I Tunes l’applicazione di Apple che permetteva di organizzare gratuitamente la propria libreria musicale in Playlist. Ebbe un successo dirompente: tant’è che le vendite al dettaglio di prodotti musicali nel principale mercato del mondo, quello USA, dimezzarono in soli cinque anni dal 1999 al 2004 (da 14,6 a 6,7 miliardi di dollari). La terza rivoluzione della musica in Rete nasce nel 2008 in Svezia per opera di un geniale programmatore Daniel Ek ed è Spotify. Spotify è un servizio che offre lo streaming on demand di selezione di brani musicali di varie case discografiche ed etichette indipendenti; all’inizio era gratuito poi ha sviluppato anche un programma “legale” cioè a pagamento e che riconosce royalties (peraltro tuttora di modesta entità) agli aventi diritto.

Spotify ha avuto una crescita stratosferica: ora ha più di 140 milioni di utenti attivi mensili (con oltre 45 milioni di abbonati paganti) e gestisce circa 2 miliardi di playlist musicali. Tutto ciò ha portato al risultato clamoroso che nel 2017 gli introiti globali provenienti dallo streaming legale hanno superato, per la prima volta, quelli provenienti dalle vendite digitali e fisiche di prodotti musicali. Insomma Spotify è divenuto in pochi anni il più grande alleato degli artisti e creatori musicali dopo essere stato per lungo tempo la loro bestia nera. Tutto bene quindi per il futuro dell’industria musicale? Non proprio. La pirateria diretta o indiretta generata attraverso la Rete è ancora altissima e il “value gap” (il distacco tra il valore generato per i colossi web e il ritorno per i creatori di contenuti) ancora molto elevato quindi ben vengano tentativi, come quello del Parlamento di Londra, per elaborare soluzioni efficaci.