A Belém, dal 10 al 21 novembre 2025, il mondo celebrerà la trentesima Conferenza delle Parti dell’Unfccc. Ma non ci sarà nulla da festeggiare. Dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, venti dal Protocollo di Kyoto, la Cop30 arriva con il mandato più fragile della storia: un’eredità di promesse non mantenute, di bilanci vuoti e di leadership evaporate.
La “transizione dai combustibili fossili”, proclamata a Dubai, si è arenata sulle sabbie dell’Azerbaijan. La Cop29, a Baku, ha stabilito un obiettivo finanziario vincolante di soli 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, mentre i bisogni reali per l’adattamento al clima nei paesi più vulnerabili superano già i 365 miliardi. La matematica dell’ingiustizia climatica è semplice: il Nord globale paga meno del necessario per mantenere l’apparenza del proprio impegno.
Il paradosso del Brasile e la farsa sul “fine dell’era fossile”
A rendere più ipocrita il vertice è il paradosso dell’ospite. Il Brasile di Lula si presenta come custode dell’Amazzonia e portavoce del Sud globale, ma poche settimane prima dell’apertura ha autorizzato Petrobras a trivellare alla foce del Rio delle Amazzoni. Gli ambientalisti parlano di “sabotaggio”, e il simbolismo di Belém — città sul grande fiume, polmone del pianeta — si trasforma in un palcoscenico di contraddizioni.
La crisi di credibilità non riguarda solo il Brasile. La maggior parte dei nuovi piani climatici nazionali (Ndc 3.0) è già giudicata inadeguata. Secondo il rapporto di sintesi dell’Unfccc, la riduzione globale delle emissioni si fermerà attorno al 10% entro il 2035, quando la scienza chiede un taglio del 60%. Un terzo dei piani nazionali prevede la “transizione dai fossili”, ma quasi nessuno riduce la produzione di carbone, petrolio o gas. Alcuni paesi, anzi, ne pianificano l’aumento.
È il prodotto dell’ambiguità introdotta a Dubai: “transitioning away from fossil fuels in energy systems”. Una clausola che consente di eliminare il carbone sostituendolo con il gas, il “combustibile di transizione” che blocca nuove infrastrutture fossili per decenni.
L’Europa che scrive le note a pie’ di pagina
Nel nuovo disordine climatico mondiale, l’Unione Europea è passata da guida morale a spettatrice amministrativa. Arriva a Belém senza un Ndc aggiornato, bloccata dalle dispute interne sull’obiettivo 2040 e da un Green Deal sotto assedio politico. La destra europea, le lobby agricole e industriali hanno svuotato la strategia comune.
Mentre gli Stati Uniti di Trump disertano il vertice e la Cina rafforza il proprio dominio sulle tecnologie pulite, l’Europa si rifugia nella burocrazia. Promuove il “Just Transition Work Programme” e la “Coalition for High Ambition Multilevel Partnerships”, ma sono vittorie di forma, non di sostanza. È la “guardiana delle note a piè di pagina”, scrive un analista, mentre altri decidono il testo principale.
La marginalità europea è anche logistica: alcuni paesi membri non invieranno nemmeno delegati a Belém per motivi di costo. L’Unione che sognava di guidare la transizione si ritrova a osservare la battaglia tra Washington e Pechino, ridotta a moderare tavoli tecnici mentre si decide la sorte del pianeta.
L’Italia del Piano Mattei: fondi verdi per il gas
Nessun Paese rappresenta la crisi di coerenza europea meglio dell’Italia. Il governo Meloni arriva a Belém con la retorica della “transizione che non penalizza l’industria”, ma un’azione climatica tra le peggiori del continente: 43ª posizione nel Climate Change Performance Index 2025.
Il Piano Nazionale Energia e Clima è stato giudicato “poco credibile” da Bruxelles; quello di adattamento è privo di fondi adeguati. Nel frattempo, il “Piano Mattei” viene presentato come modello di cooperazione con l’Africa, ma i suoi numeri raccontano altro: dei 5,5 miliardi di dotazione, 3 provengono dal Fondo Italiano per il Clima, nato per sostenere l’adattamento dei paesi poveri. Quei soldi finanziano invece infrastrutture per il gas destinate a fare dell’Italia un hub energetico europeo.
È una deviazione di scopo, non un errore. Lo stesso governo che dichiara di voler guidare la transizione usa i fondi verdi per consolidare la dipendenza fossile. In Italia, la lobby fossile non influenza la politica climatica: la occupa.
La Cop dei popoli e il fallimento del sistema
Belém sarà ricordata anche per la sua doppia anima. Accanto alla “Blue Zone” dei negoziati ufficiali, nascerà la “Cop dei Popoli”, con la più grande partecipazione indigena della storia e una domanda semplice: “Amazzonia libera dall’estrazione”. Ma il dialogo tra la foresta e i palazzi del potere sarà impossibile.
L’intero processo Unfccc è in crisi di legittimità. A Dubai si contavano 2.456 lobbisti fossili accreditati, a Baku 1.700: i piromani che scrivono le regole antincendio. L’Italia è tra i paesi che più hanno aperto loro la porta.
Belém non sarà l’ultima chance del pianeta, ma il luogo in cui si vedrà chi ha deciso di non provarci più. Nel silenzio di un’Europa burocratica e di un’Italia fossilizzata, la Cop30 rischia di diventare la conferenza che ha formalizzato la resa.