Corsa al riarmo, l’Europa arruola pure il risparmio: da costo a investimento con il bollino della sostenibilità, anche i fondi pensione includono aziende produttrici di armi nei loro portafogli

Dai fondi pensione agli Etf Esg, passando per banche pubbliche e private: così l’Europa arruola i risparmi

Corsa al riarmo, l’Europa arruola pure il risparmio: da costo a investimento con il bollino della sostenibilità, anche i fondi pensione includono aziende produttrici di armi nei loro portafogli

C’è un nuovo lessico nella finanza europea e non è più quello del “verde”, ma quello della “sicurezza”. Sotto la sigla “ReArm Europe”, la Commissione europea ha lanciato un piano da 800 miliardi di euro che rovescia il paradigma economico continentale: la difesa non è più un costo, ma un investimento. E non è solo lo Stato a doverlo finanziare: è l’intero sistema finanziario europeo, dai fondi pensione alle banche pubbliche, dai titoli Esg (Environmental, social and corporate governance) ai conti correnti dei cittadini. Il motore di questa trasformazione è la deroga alle regole fiscali che consente di escludere le spese militari dal calcolo del deficit. Ma il vero cambio di passo sta nell’apertura esplicita al capitale privato e nella mobilitazione dei risparmi popolari. La difesa diventa un “bene pubblico”, le armi un “asset strategico” e la stabilità economica una scusa per ridefinire l’intera idea di sostenibilità.

Armi con il bollino della sostenibilità

Nel 2025 Allianz Global Investors ha ufficializzato un cambiamento di rotta che segna il passo. Ha incluso nei propri fondi Esg anche aziende produttrici di armi, comprese quelle nucleari se conformi al Trattato di non proliferazione. Il tutto con la benedizione dell’autorità europea Esma, che ha ristretto la definizione di “armi controverse”. Allianz non è sola: Ubs, Dws, AkademikerPension e Pfa Pension hanno seguito la stessa strada. E se i fondi “Articolo 9” restano più stringenti, gli “Articolo 8” – la grande maggioranza del mercato – si sono dimostrati sufficientemente porosi da legittimare, sotto etichetta “green”, investimenti bellici puri.

La finanza etica parla di “war-washing”: l’uso della retorica Esg per lavare la reputazione degli armamenti. Banca Etica, Gabv, Etica Sgr lo dicono apertamente: finanziare la guerra non sarà mai compatibile con la sostenibilità, a meno di riscrivere il significato stesso di etica.

Il paradosso dei fondi pensione

Questa trasformazione è tutt’altro che teorica. Milioni di cittadini europei, spesso ignari, stanno già finanziando l’industria della difesa. In Italia accade soprattutto attraverso i fondi pensione negoziali che affidano la gestione a colossi come Allianz, BlackRock e Amundi, i cui portafogli ora includono esplicitamente aziende belliche. Le policy di investimento sono generiche o deliberatamente ambigue. E le quote di esposizione non vengono comunicate in modo chiaro ai sottoscrittori.

È una catena di comando opaca: il lavoratore delega al fondo, che delega al gestore, che sceglie titoli di imprese belliche in Etf (Exchange Traded Funds) tematici o fondi Esg.

E poi c’è la Cassa Depositi e Prestiti: braccio finanziario dello Stato. La sua policy lo dichiara esplicitamente: “Il Settore della Difesa e Sicurezza rappresenta un settore strategico per garantire la sicurezza dei paesi ed è al contempo uno tra i settori più dibattuti in termini di compatibilità con i criteri Esg”. La soluzione? “Orientare l’operatività di CDP nel Settore della Difesa e Sicurezza stabilendo criteri di trattamento, di limitazione ed esclusione”.

Anche alcuni dei principali gruppi bancari italiani forniscono supporto diretto all’export di armamenti. Il risultato è un sistema chiuso: lo Stato è cliente, regolatore e azionista; le banche finanziano; i risparmiatori forniscono capitale. Senza saperlo.

La breccia della doppia materialità

C’è però un punto di rottura. Dal 2024 è in vigore la direttiva europea Csrd, che impone il principio di “doppia materialità”: le aziende devono rendicontare non solo come la sostenibilità incide sui loro conti, ma anche come le loro attività impattano sull’ambiente e sulle persone. Una rendicontazione seria imporrebbe alle imprese belliche di raccontare i danni delle loro armi, le vittime civili, la distruzione delle infrastrutture, l’inquinamento bellico. Difficile pensare che possano, senza conseguenze, mettere nero su bianco gli effetti “materiali” dei loro prodotti.

Ma proprio per questo il rischio è che si apra la strada a una “doppia materialità di comodo”: un reporting selettivo, concentrato su aspetti neutri (emissioni in sede, parità di genere) e capace di ignorare la funzione distruttiva primaria del prodotto. Un rischio che svuota la direttiva stessa e richiede una vigilanza costante da parte della società civile.

Risparmi armati

La finanziarizzazione della difesa non è più una tendenza, è un fatto. Spinta dal piano ReArm Europe, legittimata da regolatori compiacenti, giustificata con la narrativa della sicurezza, sostenuta dai risparmi dei cittadini. Il confine tra finanza pubblica e privata è saltato, e con esso la distinzione tra investimento e complicità. In questo scenario, la trasparenza non è un orpello ma una necessità politica. Chi gestisce fondi pensione deve essere chiamato a rispondere delle proprie scelte. Chi investe in nome dei cittadini deve sapere, e dire, dove finiscono quei soldi. Chi sventola la bandiera della sostenibilità deve dimostrare coerenza.

Perché il rischio, ormai evidente, è che un’etichetta Esg basti a lavare via anche il sangue.