Così le toghe frenano le riforme

di Gaetano Pedullà

Brrrr che paura, aveva risposto Renzi dopo che l’associazione dei magistrati aveva bocciato senza appello la sua riforma della giustizia. Chissà se si è pentito: da quel giorno registriamo infatti: gli avvisi di garanzia ai due candidati di punta alle primarie del Pd in Emilia Romagna, il coinvolgimento del numero uno dell’Eni appena nominato dal governo nell’inchiesta (citofonata a un giornale) sulle presunte in Nigeria, lo stesso padre del Presidente del Consiglio indagato per una ipotesi di bancarotta tutta da decifrare. Qui non si tratta di stare con Renzi o contro, di essere garantisti o forcaioli. Se solo registriamo i fatti e riflettiamo sul Paese in cui viviamo – zeppo di privilegi, bloccato da ogni tipo di resistenze corporative, così allergico ai cambiamenti, alla modernità, alle riforme – ecco che c’è chiaro come smuovere certe acque può essere pericoloso. Ovvio che di questo il premier è al corrente, ma nel suo percorso riformista probabilmente ha sottovalutato la coesione corporativa dei magistrati o ha sopravvalutato la maturità delle toghe nell’assecondare un disperato tentativo di adeguare regole e istituzioni a un mondo profondamente cambiato.

Le toghe, da ordine dello Stato si sono trasformate ormai da tempo nel più forte dei poteri dello stesso Stato, tanto da non limitarsi ad applicare le leggi ma diventare parte dialogante con la politica nella formulazione dei testi. Senza voler sminuire il ruolo fondamentale dei giudici in un Paese corrotto come il nostro, prendiamo atto del ruolo di supplenza della politica che la magistratura si è autoattribuita sin dai tempi di Tangentopoli. Dopodichè chiediamoci: le toghe possono cooperare a un processo di modernizzazione del Paese? Le anime belle adesso storceranno il naso. Ma cambiare verso all’Italia senza dialogare con chi ha la capacità interdittiva della nostra magistratura oggi è illusione. E Renzi ieri l’ha visto.