“Non voterei la fiducia sull’attuale versione della cosiddetta riforma della giustizia. E’ inaccettabile che il presidente del Consiglio chieda l’autorizzazione al voto di fiducia già al varo in Consiglio dei ministri del relativo Ddl”. Così Stefano Fassina, deputato LeU, ospite ad Agorà estate su Rai3. “Come sarebbe inaccettabile, continua, se fosse messa la fiducia su un Ddl di delega a maglie larghe sul fisco. L’Italia è ancora una Repubblica parlamentare: le leggi sono discusse e approvate da Camera e Senato, tanto più quando sono provvedimenti di portata sistemica. I rilievi mossi sul testo Cartabia, non soltanto dal M5S, ma dal Csm e da numerose e autorevolissime personalità della magistratura e della cultura giuridica, vanno ascoltati e i conseguenti emendamenti approvati”, ha aggiunto. “Mi colpisce l’inversione dell’ordine dei fattori decisivi ad arrivare al giusto processo, quindi a un processo concluso nei suoi tre gradi di giudizio in tempi allineati ai più efficienti ordinamenti dell’Ue: prima le scadenze rigide e indifferenziate per l’improcedibilità, poi le risorse umane e strumentali. Lo stato di emergenza non autorizza il premier tecnico a continue forzature delle procedure costituzionali”, ha concluso Fassina.
GRASSO ALL’ATTACCO. Perplessità condivise anche dall’ex presidente del Senato Pietro Grasso in un’intervista su Il Fatto quotidiano in cui rivela: “Penso che in molti si saranno chiesti se i dati drammatici sui tempi attuali di durata dei processi, da tempo noti, siano stati letti dai tecnici del ministero che hanno scritto l’emendamento o dai decisori politici, senza desumerne l’assoluta certezza che centinaia di migliaia di processi andranno in fumo”. Secondo il senatore “il legislatore non può non tenere conto della realtà esistente che, col suo intervento, va a modificare e dei prevedibili effetti che andrà a produrre. Nel dettaglio, la Cassazione è forse in grado di rispettare il termine di un anno. Ma nove Corti di appello su 26 superano la media di durata di due anni dei processi, e gli uffici di Roma, Napoli, Reggio Calabria, Bari e Venezia, che rappresentano circa la metà del carico giudiziario, non concludono un processo in appello prima di mille giorni, cioè praticamente tre anni”. Per questo “se non si apporta alla riforma qualche ulteriore modifica, non v’è dubbio che i cittadini non potranno che prendere atto che la scelta politica sarà quella di far andare in prescrizione, sostanziale o processuale che sia, i numerosissimi procedimenti accumulatisi nelle corti di Appello meno virtuose” e in tal caso “farei fatica a partecipare al voto di fiducia”.