Il punto di partenza è nelle parole pronunciate dal sostituto procuratore nazionale antimafia Antonio Ardituro: nelle curve italiane cresce un’area grigia in cui si intrecciano suprematismi, affari e infiltrazioni criminali. È un allarme che non riguarda più solo il calcio. Tocca anche il basket e – soprattutto – mette a nudo un sistema politico e sportivo che ha preferito evitare gli incidenti piuttosto che affrontare la radice del problema. La notizia è che la Procura antimafia parla apertamente di svastiche, gruppi neofascisti, reti transnazionali e rapporti opachi tra club e tifoserie organizzate. È un salto di qualità: non è più un tema di ordine pubblico. È una questione di sicurezza democratica.
La zona grigia che piace alla politica
Le curve sono diventate nei fatti spazi extraterritoriali. Ardituro lo dice chiaramente: quando un settore dello stadio è gestito da un gruppo che stabilisce regole proprie, impedisce ai tifosi con biglietto nominale di sedersi al proprio posto, tratta con dirigenti e calciatori come un interlocutore politico e pretende pacchetti di biglietti fuori dai canali ufficiali, non si parla di folklore. Si parla di potere. Un potere che interessa alle mafie e alle organizzazioni dell’estrema destra, che vi trovano una base fertile: visibilità, ricambio generazionale, soldi, controllo del territorio sociale che circonda lo stadio.
La politica ha accettato questo equilibrio instabile perché garantiva una “pace negli stadi” che valeva più della legalità. L’obiettivo era evitare incidenti, non recuperare sovranità. È la critica più tagliente della Procura: finché il criterio sarà solo la quiete apparente, la tentazione di chiudere un occhio sui rapporti privilegiati con gli ultrà resterà. E qui si innesta il nodo istituzionale: Ministero dell’Interno, FIGC, Leghe, club, Comuni e Regioni si dividono competenze e responsabilità, lasciando un vuoto che i gruppi criminali riempiono benissimo.
Tre piste per spezzare il patto non scritto
La prima è culturale e normativa: trattare davvero le curve come un luogo in cui si intrecciano mafie ed eversione. Significa coordinare stabilmente Dna, Digos, federazioni e club; colpire la presenza sistematica di simbologie neonaziste con sanzioni sportive e amministrative; leggere le curve come un terreno di radicalizzazione politica.
La seconda riguarda il modello repressivo. La Procura suggerisce un’evoluzione dei Daspo, seguendo la logica dei banning orders inglesi: divieti pluriennali anche per chi esercita ruoli di comando, gestisce economicamente la curva o intrattiene contatti con clan. Misure coerenti con le prevenzioni antimafia, non più solo con la repressione degli scontri. È un cambio di paradigma: colpire la struttura invece dell’episodio.
La terza è la trasparenza, vero nervo scoperto. Ardituro è netto: niente più pacchetti di biglietti consegnati ai gruppi ultrà, tracciabilità totale della biglietteria, controlli antimafia estesi a parcheggi, steward, catering e a ogni concessione collegata allo stadio. È il punto in cui si misura la volontà reale dei club: eliminare quelle rendite opache significa togliere soldi e potere a chi governa la curva.
Accanto a questo, resta la prevenzione strutturata: un lavoro sociale con le tifoserie, sul modello tedesco della fanarbeit, per limitare radicamento estremista e violenza, con operatori stabili e professionali.
Oggi la Procura antimafia dice che il problema non è periferico. È diventato un indicatore dello stato di salute della democrazia. Le società sportive chiedono tifo, calore, coreografie. Ma la politica deve decidere se quel calore può essere lasciato in mano a chi lo trasforma in potere parallelo. È lì che si vede da che parte stanno davvero le istituzioni.