Il 15 novembre 2023 Giorgia Meloni difendeva la precettazione degli scioperi decisa dal ministro Matteo Salvini. La definiva «una decisione assolutamente condivisa» e «non una scelta politica, ma la mediazione tra diversi diritti». È la prima tappa di una linea costante: ogni volta che i lavoratori si fermano o che le piazze manifestano, la presidente del Consiglio non contesta mai le ragioni ma colpisce la legittimità stessa della protesta.
Nel novembre 2024, in videocollegamento con la chiusura della campagna elettorale in Emilia-Romagna, torna sul tema. Rivolta a Cgil e Uil, ha affermato: «Perché non lo sciopero generale quando la disoccupazione era doppia?». L’argomento è chiaro: lo sciopero viene dipinto come intempestivo, incoerente, privo di fondamento. Un ribaltamento della realtà sociale: invece di discutere delle misure del governo, il capo dell’esecutivo mette sotto accusa chi sciopera.
Dalle piazze ai cortei per Gaza
Ma il salto di qualità è arriva nel settembre scorso. A Milano le immagini delle manifestazioni per Gaza diventano il bersaglio di un post della premier, rilanciato dalle agenzie: «Indegne le immagini da Milano: sedicenti “pro-pal”, “antifa”, “pacifisti”». La ripetizione del termine “sedicenti” e la successiva definizione di «teppisti» segnano un lessico preciso. Le piazze non sono spazi di dissenso ma di devianza, non portano rivendicazioni politiche ma disordine.
Il 30 settembre, mentre la Global Sumud Flotilla si avvicinava a Gaza, Meloni diffondeva una nota ufficiale: «La Flotilla dovrebbe fermarsi ora». Secondo la premier, tentare di forzare il blocco israeliano «può offrire un pretesto» e mettere a rischio il piano di pace promosso da Donald Trump. Le parole non sono neutre: di fronte a un’operazione civile di aiuti umanitari, il capo del governo italiano si allinea alla narrativa di chi considera l’intervento pericoloso e illegittimo.
Lo sciopero contro il governo
Due giorni dopo, il 2 ottobre 2025, a Copenaghen per un vertice europeo, Meloni è tornata a parlare di piazze e scioperi. Ai giornalisti che chiedono della mobilitazione nazionale indetta da sindacati e movimenti in solidarietà con la popolazione palestinese, ha risposto: «Il weekend lungo e la rivoluzione non stanno insieme». Poi aggiunge: «Tutto questo non porta benefici ai palestinesi, porterà disagi agli italiani».
Il messaggio è duplice: da una parte si minimizza la protesta, ridotta a un’occasione di vacanza; dall’altra si ribalta il nesso tra causa e conseguenza. Non più cittadini che scendono in strada contro le scelte del governo, ma cittadini messi in difficoltà dagli stessi scioperanti. È un meccanismo comunicativo già rodato: le ragioni vengono oscurate, resta solo il danno.
Una cronologia coerente
Dal 2023 a oggi, Meloni ha usato formule diverse ma una costante identica: lo sciopero è sempre «sbagliato», la manifestazione sempre «inutile», la Flotilla sempre «pericolosa». Nel 2023 la precettazione diventa atto tecnico; nel 2024 lo sciopero generale viene bollato come anacronistico; nel 2025 i cortei per Gaza sono ridotti a “sedicenti pacifisti” e la Flotilla a una minaccia di destabilizzazione.
Dietro le sfumature resta un unico impianto. Chi dissente non esercita un diritto costituzionale, ma arreca danno. Chi protesta non rappresenta una parte del Paese, ma è accusato di voler approfittare del “ponte”. Chi parte per portare cibo e medicinali a Gaza viene trasformato in un fattore di rischio per la diplomazia internazionale.
È una sequenza documentata di parole pubbliche, pronunciate in conferenze stampa, post ufficiali, interviste e note del governo. Sono parole che pesano. Perché mentre i sindacati e i movimenti invocano la Costituzione e il diritto internazionale, la presidente del Consiglio preferisce un linguaggio che isola, squalifica e riduce il dissenso a problema di ordine pubblico o di fastidio collettivo.
Nell’Italia del 2025 questo è il repertorio di un capo di governo che, alla vigilia di ogni manifestazione o sciopero, ripete sempre la stessa accusa. Poi, con altrettanta naturalezza, viene a parlare di odio.