La narrazione del governo italiano – “accordo sostenibile”, “guerra commerciale evitata”, “successo per l’Italia” – non regge alla prova dei dati. Il compromesso raggiunto il 27 luglio tra Unione Europea e Stati Uniti, accolto con favore da Giorgia Meloni e Antonio Tajani, stabilisce dazi uniformi al 15% su gran parte delle esportazioni europee verso gli Usa e impegna l’Europa ad acquistare 750 miliardi di dollari di energia e armi statunitensi e 600 miliardi in investimenti transatlantici. Nessuna garanzia di reciprocità, nessuna clausola protettiva per le filiere vulnerabili, nessuna esclusione per i settori chiave del Made in Italy.
Mentre la Francia ha ottenuto esenzioni per i distillati, per l’Italia l’intesa priva non prevede salvaguardie per vino, olio d’oliva e agroalimentare trasformato. Il comparto vitivinicolo, da solo, rischia danni superiori ai 317 milioni di euro annui. Il carico combinato del dazio e del rafforzamento del dollaro comporta, secondo CNA, 23 miliardi di export in meno e fino a 100.000 posti di lavoro in bilico.
Rinunce strategiche e silenzi operativi
Il governo italiano ha svolto un ruolo attivo nell’orientare la trattativa verso la linea più morbida. Tajani e Meloni hanno appoggiato il rinvio dell’attivazione delle contromisure europee contro i dazi Usa su acciaio e alluminio, già approvate ad aprile. Hanno inoltre ostacolato l’utilizzo dello strumento anti-coercizione (Aci), ritenuto “non necessario”. Durante l’intera trattativa, l’Italia si è presentata come parte collaborativa più che controparte negoziale.
Il comunicato del 27 luglio – firmato da Meloni, Tajani e Salvini – rivendica “la soluzione negoziata” come frutto di “grande impegno” italiano. L’indomani, da Addis Abeba, Meloni ha parlato di “esito positivo”, ammettendo “qualche nodo da sciogliere sull’agricoltura”, mentre il ministro degli Esteri ha definito “sostenibile” il dazio al 15%. Una posizione che ha contribuito a consolidare l’intesa sulle condizioni dettate da Washington.
Tra “sudditanza” e “allarme economico”
Le opposizioni hanno denunciato la natura asimmetrica dell’accordo. Elly Schlein ha definito l’intesa “una resa senza condizioni che costerà miliardi all’Italia”. Giuseppe Conte ha parlato di “un trionfo per Trump, un Ko per Meloni e von der Leyen”. Angelo Bonelli ha ricordato che “sono a rischio 100.000 posti di lavoro”, mentre Carlo Calenda ha descritto l’intesa come una “capitolazione” dell’Europa. Nicola Zingaretti ha sintetizzato: “Sovranisti amici tra loro, nemici degli italiani”. Il senatore PD Francesco Boccia ha sottolineato che “nella guerra tra sovranisti Trump ha umiliato Meloni e i suoi amici”.
Il Movimento 5 Stelle ha chiesto la convocazione urgente di Meloni in Parlamento per riferire sull’accordo. La vice presidente del Senato, Mariolina Castellone, ha dichiarato: “Il governo si è arreso. Ora eviti almeno che qualcuno paghi con il proprio lavoro”. Il deputato Lorefice ha elencato in un decalogo le criticità dell’intesa, mentre per Marco Furfaro “Meloni è passata da sovranista a zerbino”.
Le associazioni di categoria condividono la preoccupazione. Federvini ha definito il 15% una soglia “preoccupante”, Assitol ha parlato di “tariffe ancora sostenibili, ma con incognite per l’olio d’oliva”, e Unionfood ha espresso “grande incertezza per la filiera della pasta”. Coldiretti ha chiesto “compensazioni immediate per i comparti penalizzati”. Confartigianato stima che siano 25.000 le imprese italiane direttamente esposte. La Cgil parla di “accordo suicida” per la manifattura, Confesercenti denuncia “la mancanza di un piano compensativo”.
Una strategia che legittima la coercizione
Il contesto politico europeo spiega ma non giustifica la posizione italiana. La Commissione ha evitato l’escalation commerciale, ma ha accettato condizioni fortemente sbilanciate. Il commissario Maroš Šefčovič ha dichiarato che “senza intesa gli scambi Ue-Usa sarebbero crollati”. Ma c’è chi, come la Cina, ha ottenuto concessioni opponendosi alla strategia coercitiva americana. L’Europa, al contrario, ha confermato la validità di quella stessa strategia, cedendo sotto minaccia.
L’Italia ha svolto un ruolo determinante in questa dinamica. La rinuncia preventiva a strumenti negoziali, la minimizzazione del rischio e l’adesione convinta a una linea di conciliazione hanno indebolito il fronte europeo, rafforzato la posizione americana e prodotto un precedente. Il rischio, ora, è che questo paradigma si consolidi: minacciare per ottenere, cedere per evitare. Con buona pace della “sovranità economica”.