Ddl femminicidio, una legge scritta senza le vittime. ActionAid avverte: “Una misura meramente simbolica”

Il Ddl sul femminicidio esclude chi la violenza la combatte: centri antiviolenza e ONG lasciati fuori dal dibattito parlamentare

Ddl femminicidio, una legge scritta senza le vittime. ActionAid avverte: “Una misura meramente simbolica”

Il Ddl sul femminicidio, approvato il 7 marzo 2025 dal governo Meloni, promette l’introduzione di una nuova figura di reato autonomo nel Codice penale, punito con l’ergastolo. Una misura presentata come “svolta storica” per la lotta alla violenza maschile contro le donne. Ma la cronaca parlamentare racconta tutt’altro: mentre il disegno di legge è atteso in aula per l’8 luglio, il lavoro in Commissione Giustizia del Senato si è trasformato in un monologo repressivo. Le audizioni tecniche sono state sospese senza aver mai coinvolto i centri antiviolenza, le associazioni femministe, le operatrici sociali. Nessun confronto diretto con chi quella violenza la fronteggia ogni giorno, fuori dai palazzi.

Audizioni mutilate, giustizia cieca

Dal verbale delle sedute emerge un dato chiaro: la Commissione ha ascoltato soltanto magistrati, giuristi, accademici. Nomi e ruoli che segnalano l’univocità dell’approccio: il femminicidio trattato come un’anomalia giuridica, da contenere inasprendo le pene e moltiplicando le aggravanti. A parlare non sono mai state le operatrici dei centri antiviolenza, né le Ong impegnate nei territori, né le rappresentanti delle reti femministe. La sospensione del ciclo di audizioni, comunicata a fine maggio, ha segnato la rottura definitiva: un provvedimento che nasce già monco, costruito senza il contributo delle principali realtà che conoscono i meccanismi della violenza di genere.

I numeri che il DDL ignora

La fotografia statistica, infatti, smentisce la retorica emergenziale dell’inasprimento penale. I femminicidi registrati dal Ministero dell’Interno sono rimasti sostanzialmente stabili negli ultimi cinque anni: 101 nel 2020, 96 nel 2024. Secondo Istat, tra il 2020 e il 2023, le denunce sono aumentate di appena lo 0,2%. Dati che smontano la tesi del “bisogno di nuove pene”, e che confermano quanto sostengono da anni le organizzazioni del settore: senza investimenti in prevenzione primaria, cultura della parità, autonomia economica e welfare, nessun reato nuovo fermerà la violenza. Lo dicono le operatrici, lo scrivono 80 penaliste in un appello ignorato dalla Commissione, lo denunciano Ong come ActionAid, Differenza Donna, la rete D.i.Re.

Un DDL costruito nel vuoto politico

A difendere la scelta della Commissione è Giulia Bongiorno (FdI), che definisce “sufficienti” le audizioni svolte. Un’affermazione che suona come un’affermazione di principio: chi decide cosa sia “sufficiente” a legiferare su una delle più complesse forme di violenza sistemica? L’opposizione, da parte sua, è divisa. La senatrice Valeria Valente (Pd) ha parlato apertamente di “approccio securitario”, denunciando l’assenza di misure concrete su occupazione femminile, servizi e welfare. Il Movimento 5 Stelle riconosce il valore simbolico del reato, ma ne evidenzia i limiti strutturali. Intanto, la Lega, partner silenzioso di governo, ha evitato ogni intervento pubblico sul testo. Il risultato è un disegno di legge senza radici, senza contraddittorio e senza efficacia prospettica.

La scorciatoia dell’ergastolo

Definire un reato non è un atto performativo. L’omicidio di una donna “in quanto donna” è già oggi punibile con l’ergastolo, e l’introduzione del femminicidio come fattispecie autonoma rischia di essere un duplicato normativo con funzione propagandistica. ActionAid lo definisce senza mezzi termini: “una misura meramente simbolica”. La preoccupazione non è teorica. Il disegno di legge obbliga il pubblico ministero all’audizione della vittima solo su sua richiesta motivata, introduce obblighi formativi per magistrati e rafforza l’informazione alla vittima, ma manca totalmente di una strategia culturale a lungo termine. Un vuoto che ha già un nome: fallimento annunciato.

Il Parlamento ha paura delle esperte

Escludere sistematicamente i soggetti che lavorano sul campo è una precisa scelta politica. È un modo per sottrarre il provvedimento alla verifica del reale. È una forma raffinata di sabotaggio istituzionale. Perché il governo e la Commissione Giustizia temono il confronto con chi gestisce i centri antiviolenza, chi conosce la connessione tra stereotipi di genere e disuguaglianze economiche, chi vede ogni giorno le falle dei dispositivi di protezione? La domanda resta inevasa.

Il rischio: una legge da prima serata

La violenza maschile sulle donne, scrive la Convenzione di Istanbul, è radicata nella disuguaglianza strutturale tra i generi. L’Italia è già stata condannata a Strasburgo per la sua inadeguatezza nel proteggere le donne che denunciano. Il rischio concreto è che il Ddl diventi una legge da talk show, utile per alimentare la propaganda punitiva e i comunicati stampa, ma sterile sul fronte della riduzione reale dei femminicidi. Come andrà a finire non è difficile da prevedere.