Decollare costa caro. In Italia di più

di Gaetano Pedullà

Le Poste salvano Alitalia e il capo dei postini decolla verso Telecom. Nell’ultimo episodio di una telenovelas che finisce sempre con un mucchio di soldi in fumo, c’è tutta l’Italia di oggi: un’azienda in crisi, lo Stato che paga, il risiko dei manager e i disastri riparati col cacciavite. Alitalia è una società che negli anni il Paese ha comprato più volte. L’ha comprata con le ricapitalizzazioni finanziate dai contribuenti, con le obbligazioni rimaste sullo stomaco dei risparmiatori, con centinaia di milioni distribuiti in cassa integrazione e con montagne d’oro regalate ai suoi manager. Non fosse stato per l’Europa che vieta gli aiuti di Stato, avremmo continuato a gettare dobloni in un pozzo senza fondo. Dal pubblico al privato, per conservare un asset decisivo in una nazione vocata al turismo, la Banca Intesa di Passera e Miccichè mise insieme la cordata dei capitani coraggiosi. Una sfida non facile in una crisi dei cieli che non ha fatto sconti a nessuno. Decine le grandi compagnie aeree fallite nel mondo e la stessa Air France che nel 2008 voleva comprare Alitalia pagandola centinaia di milioni adesso fa tutt’altro che nuotare nell’oro. Oggi comunque i soldi del vettore guidato da Colaninno sono terminati e fino a ieri le possibilità rimaste erano due: regalare la società ai francesi oppure trovare soldi freschi. Visto il silenzio dei privati, non restava che il solito Pantalone: lo Stato. Con 75 milioni il numero uno della società che recapita male la corrispondenza in Italia, Massimo Sarmi, correrà in soccorso della compagnia, consentendo un aumento di capitale da 300 milioni. Poca roba, che comunque obbligherà presto a vendere. In cambio Sarmi, gradito agli spagnoli nuovi proprietari di Telecom, tra breve andrà a guidare la compagnia telefonica. La difesa dell’italianità di Alitalia (e il favore a palazzo Chigi) metteranno tutti d’accordo per il suo nuovo incarico. Un manager che decolla in un’Italia che precipita.