La Sveglia

Diplomazia da salotto, mentre a Gaza si scava a mani nude

Quarantotto civili uccisi nei pressi del valico di Gaza, secondo l’ospedale locale. L’esercito israeliano nega che sia stato fuoco dell’IDF. Una disputa sulle responsabilità che diventa il simbolo di una guerra dove i morti sono veri e le verità sono di parte. Le immagini raccontano corpi stesi a terra, ospedali senza tregua, e un numero di vittime che continua a crescere. A Gaza non esiste più un luogo sicuro. La guerra si è fatta amministrazione quotidiana del dolore.

In questo scenario, il Canada annuncia che riconoscerà lo Stato di Palestina all’Assemblea generale dell’ONU di settembre. Non un gesto isolato: anche Regno Unito e Francia si muovono sulla stessa linea. Ma Ottawa mette condizioni severe, dall’esclusione di Hamas dalle elezioni del 2026 alla costruzione di un’autorità statale smilitarizzata. Il governo israeliano grida al «premio al terrorismo». Trump, fedele alla linea di Netanyahu, minaccia ritorsioni commerciali contro i canadesi.

Il riconoscimento, così com’è, sembra più un atto di pressione politica che un progetto di pace. Senza cessate il fuoco, senza un corridoio umanitario garantito, senza una strategia per fermare i massacri, ogni iniziativa diplomatica rischia di restare appesa al vuoto. La diplomazia non può essere una cerimonia di parole mentre la gente muore.

Il dato politico, però, è evidente. Il blocco internazionale che finora ha protetto Israele comincia a incrinarsi. Si impone una domanda: quanto ancora si potrà fingere che l’occupazione e la violenza siano l’unico linguaggio possibile? La risposta, per ora, arriva dalle fosse comuni di Gaza.