Licenziamenti e appalti: gratti Draghi ed escono Lega e Confindustria. Il Governo sempre più a destra

Subappalti liberi, ritorno al massimo ribasso e stop al blocco dei licenziamenti da luglio. Il Governo Draghi pende sempre più a destra. E prepara una serie di norme che sembrano scritte sotto dettatura di Lega e Confindustria. I Cinque Stelle in trincea.

Licenziamenti e appalti: gratti Draghi ed escono Lega e Confindustria. Il Governo sempre più a destra

Appare sempre più evidente che nel “governo arcobaleno” del premier Mario Draghi si sia creato – e nel tempo fortificato – un asse strategico tra la Lega e Confindustria. E certamente una chiave interpretativa di questo è che il ministro dello Sviluppo Economico sia Giancarlo Giorgetti che rappresenta l’ala economicista e liberale del partito e che infatti soffrì non poco ai tempi del populismo gialloverde del Conte I, quando Salvini era al potere non a caso in un ministero “ideologico”, come quello dell’Interno che gli permetteva di controllare uno dei punti chiave del programma del suo partito, il contrasto all’immigrazione. La nomina di Giorgetti è il segno questo di uno spostamento di potere del baricentro leghista.

Licenziamenti e appalti: gratti Draghi ed escono Lega e Confindustria

Questa riflessione è dettata da fatti concreti. Il decreto semplificazioni contiene due proposte – i subappalti senza limite e al massimo ribasso -, che sono due misure che hanno provocato immediate prese di posizione da parte anche degli stessi costruttori. “Buttare il codice e usare quello europeo vorrebbe dire bloccare la macchina operativa – taglia corto il presidente dell’Ance Gabriele Buia -. Adesso non si può fare, è l’ora delle misure strategiche. Azzerare tutto non è la via d’uscita”.

E non è tutto. “Il piano Next Generation Ue porterà all’Italia tantissime risorse in tempi molto stretti e ciò ovviamente aumenterà anche eventuali appetiti criminali sulla spesa pubblica – gli fa eco il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia -. Quindi, è necessario adottare dei contrappesi che non rallentino la spesa, visto che la stessa deve essere strumento di innovazione e sviluppo. Dobbiamo però dare massima trasparenza agli appalti e garantire che le istituzioni competenti e tutti i cittadini li possano controllare. Inoltre, e soprattutto, abbiamo bisogno di una Pubblica amministrazione più forte e competente: è la migliore misura anticorruzione”.

Il primo punto contestato – e cioè quello dell’abolizione del limite del 40% sui subappalti – è infatti visto come un chiaro esempio di aperture alla criminalità. E Busia lo dice chiaro: “Se la paura legata all’abolizione di un limite fisso si giustifica con il timore dell’infiltrazione criminale o mafiosa – che costituisce effettivamente un rischio legato ai subappalti incontrollati – dobbiamo anche riconoscere che anche il precedente limite del 30%, come pure quello del 40% non vanno bene. Non possiamo essere così ipocriti da dire: accetto la presenza delle mafie negli appalti, purché rimanga nel limite del 40% o del 30%”.

Subappalti liberi, ritorno al massimo ribasso e stop al blocco dei licenziamenti da luglio

Insomma non si può dire che l’Anac abbia usato il fioretto quanto piuttosto la spada, anzi lo spadone. Poi c’è il secondo punto, quello del massimo ribasso. Contro si sono espressi già il Partito democratico e i sindacati, mentre Lega e buona parte di Forza Italia sono favorevoli. Dietro c’è una partita essenziale e cioè quella della sicurezza e la vicenda del ponte Morandi crollato a Genova qualcosa dovrebbe insegnare e cioè che il privato è bravissimo ad analizzare e trovare immediatamente il punto debole di una legge per curvarla a suo favore.

Nel frattempo Salvini, da bravo soldato di Giorgetti, rilancia, chiedendo addirittura l’abolizione del Codice sugli appalti, tanto per far capire quanto la Lega sia determinata ad aiutare i suoi elettori imprenditori che hanno annusato l’oceano di denaro che si sta per riversare da Bruxelles e non vogliono certo farsi trovare impreparati. E qui qualche osservazione politica è d’obbligo. Cosa vuole fare da grande Draghi? Lo spirito che lo anima è solo quello liberal sviluppista, senza alcuna considerazione per l’etica? Se così fosse rischierebbe di creare rapide condizioni di instabilità della sua maggioranza nella componente M5S-Pd ed abbiamo visto che poi certe instabilità possono aumentare fino a diventare un grosso problema per la tenuta del governo. Sottovalutare questo aspetto sarebbe un grave errore per l’ “ex uomo di Francoforte”.

Qui infatti non si tratta più di economia, ma di politica. E Draghi non può pensare di fare come gli pare per due motivi che gli dovrebbero essere molto chiari. Il primo è che l’ombrello protettivo del Quirinale su di lui ha cominciato a ritirarsi anche con la dichiarazione da parte di Sergio Mattarella di non volere ricandidarsi al Colle. E il secondo è sempre lo stesso, ma declinato diversamente: se il premier volesse puntare, come è più che plausibile, alla Presidenza della Repubblica dovrebbe avere il supporto di tutti e non solo di Salvini che prima faceva di professione il “mangia-Draghi”, una sorta di San Giorgio laico che odiava i banchieri e l’Ue e che ora è stato fulminato sulla via di Bruxelles. Una conversione che sa molto di tattica e di do ut des. Ma così facendo Draghi perderebbe il supporto di tutti gli altri, a cominciare da Pd e M5S e il Colle lo vedrebbe col binocolo.