di SERGIO PATTI
Il cognome Casamonica a Roma lo conoscono tutti. È quello di una gigantesca famiglia di origini rom diventato sinonimo di delinquenza. Un clan, specializzato nel racket dell’usura, ma che ha fatto il salto di qualità diventando padrone temuto e rispettato delle ampie periferie a sudest della Capitale. Persino la banda della Magliana fece a patti con loro e il continuo entra ed esci dei vari esponenti dal carcere non ne ha fiaccato il potere criminale. Grazie a coperture apparentemente legali sono una delle prove incontrovertibili che il sistema giudiziario italiano è inflessibile con gli onesti ma del tutto inefficace con i più pericolosi fuorilegge. Non tutti i Casamonica, è chiaro, sono malviventi, e questo è stato il paravento di presentabilità dietro al quale i boss della famiglia hanno continuato a gestire i loro affari, fino a conquistare Roma.
NON SOLO BUZZI
Una conquista dichiarata su un manifesto che accompagnava ieri il feretro di uno dei grandi capi del clan: Vittorio Casamonica. “Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso” è il messaggio da far preoccupare i santi che sintetizza i concetti di potere, religiosità distorta, tradizioni e rispetto tipici delle associazioni mafiose. Perché a Roma la mafia non è solo quella dei Buzzi e Carminati, ma soprattutto quella di strada, dove si esercita il controllo del territorio e con questo tutti i proventi di ogni genere di traffici: dalla prostituzione all’usura, dalle estorsioni alla droga. Giri che fruttano montagne di milioni, e che possono continuare se è riconosciuto da tutti il potere di chi comanda. Ecco perché da sempre i funerali dei padrini sono una ostentazione di potenza e rispetto. Proprio come è stato per il Casamonica che ieri ha lasciato questo mondo, senza portare con se quello scettro del comando già passato in nuove mani. Uno spottone del crimine, insomma, che una città sull’orlo di vedere il comune sciolto per mafia non ha saputo bloccare.
PETALI DALL’ELICOTTERO
Così l’ultimo saluto a un defunto di riconosciuto spessore criminale è andato in scena con tutti gli stereotipi della fenomenologia mafiosa. La bara che attraversa le strade della città su una carrozza antica trainata da cavalli, la musica del Padrino, i petali rossi lanciati da un elicottero e tutti quei messaggi talmente kitsch da sembrare una rappresentazione di un film sulla Cosa nostra americana degli anni cinquanta. All’esterno della chiesa un manifesto dice solo “Re di Roma”, in un altro si vede il Colosseo e la Basilica di San Pietro con l’immagine del morto vestito tutto di bianco con una croce in mano. Per Roma una nuova pagina drammatica in mondovisione e il segno che non si può più far finta di niente. Lo Stato non si accorge di nulla, non vede e non sente. Quello che serve alle organizzazioni criminali per continuare nei loro traffici. Il Comune assente o incapace di comprendere quello che gli accade intorno. Solo a esequie avvenute il sindaco Ignazio Marino si sveglia e pubblica sulla sua pagina Facebook che non si tollererà l’invio di così chiari segnali malavitosi. Come se si potesse tornare indietro nel tempo e la figuraccia già rilanciata dai mezzi d’informazione non stia demolendo l’immagine di Roma a livello intenazionale.
L’IMBARAZZO DELLA CHIESA
Proprio come per la Chiesa, che ha tollerato una tale sceneggiata mentre nella stessa parrocchia del Tuscolano vietò i funerali di Piergiorgio Welby (l’uomo gravemente malato che si battè per l’eutanasia) anche per il Comune lo smacco è dunque innegabile. Un corteo con i cavalli non può passare per la città senza che qualcuno l’abbia autorizzato o un vigile urbano se ne sia accorto. Mentre ci si prepara a celebrare il maxiprocesso ai protagonisti dell’inchiesta mafia Capitale, chiudendosi in un bunker come ai tempi di Falcone e Borsellino, il crimine sta fuori e controlla le strade. Un fatto ineludibile, del quale è difficile capire come potrà fare il Consiglio dei ministri del 27 agosto a svicolare per salvare dal commissariamento il Campidoglio.
DALLA BANDA DELLA MAGLIANA ALL’USURA. LA STORIA DEL CLAN
di CAROLA OLMI
Negli anni della banda della Magliana il nome dei Casamonica inizia a diventare noto a Roma. Proprio Vittorio, il boss appena scomparso, è uno degli addetti al recupero dei crediti. I metodi non sono dei più civili e l’incarico affidato da Enrico Nicoletti è il più congeniale a un criminale che si è specializzato nei prestiti a usura. E dire che fino all’inizio degli anni ‘70 non c’era traccia di questa famiglia di origine sinti, nomadi arrivati prima in Abruzzo e poi trasferitisi nella Capitale. Dopo aver girato mezza Europa qui trovano però casa, occupando la zona a sudest che va dal Tuscolano all’Anagnina. Un fortino che controllano spietatamente, gestendone tutti i traffici illeciti. Finiti nel mirino della giustizia per un po’ spariscono fino a riemergere negli ultimi anni e infine in molti collegamenti dell’inchiesta mafia Capitale. Spettacolari i sequestri fatti in alcune delle loro abitazioni, tra rubinetti d’oro, statue antiche, marmi pregiati e auto di lusso.
IL SALTO DI LIVELLO
A differenza della malavita che si ripulisce e manda i figli a studiare nelle migliori scuole all’estero, i Casamonica fanno delle loro tradizioni e della simbologia che le accompagna un punto di forza. Con l’ostentazione del loro potere criminale sono riusciti a fare il salto di qualità, legando rapporti con parte della politica romana, ma senza lasciare il controllo delle strade e del loro business più ricco, quello delle origini: l’usura. Affari che vanno a gonfie vele a vedere il funerale di ieri.