Ecco perché Falcone vive ancora

di Peppino Caldarola

Giovanni Falcone è uno degli eroi italiani più limpidi ma anche più controversi. È stato sicuramente il simbolo più alto e più scientificamente determinato nella lotta contro la mafia. Giurista di grande cultura, magistrato inflessibile, garantista, servitore dello Stato come pochi. Ci sono alcune personalità che fanno la storia. Falcone la fece perché capì il nemico, intuì come combatterlo, seppe fare squadra con altri magistrati e con quei super-poliziotti che poi hanno guidato il Viminale, da De Gennaro a Manganelli, convinse Tommaso Buscetta a collaborare squarciando veli pesanti e per lungo tempo immobili. La vita di Giovanni Falcone non fu piena di successi. Il prestigio post-mortem non fu accompagnato mentre faceva indagini da un consenso ampio.
Ebbe inimicizie nella procura di Palermo, destò l’apprensione di servitori dello stato infedeli, ma fu anche contrastato da settori di opinione pubblica e da magistrati e politici che criticarono sia la sua “prudenza” sul famoso “terzo livello”, a cui lui non credeva, sia la sua collaborazione con Claudio Martelli.

Negli anni caldi della lotta alla mafia la sua immagine fu frequentemente offuscata da polemiche di “professionisti dell’antimafia”, per usare un formula infelice di Sciascia, da colleghi invidiosi, da politici e giuristi che criticarono la sua collaborazione con uomini del potere. Persino dopo la morte la sua immagine è stata offuscata da quella di Borsellino, suo collega e amico, vittima anche lui dello stragismo mafioso, che apparve, e appare, più di lui radicale nella immaginario collettivo. Eppure Falcone è stato forse uno degli uomini più importanti della storia italiana. I suoi testi giuridici sono pieni di dottrina, la sua azione di magistrato non cedette di un millimetro alle mode e al facile consenso, la sua azione assestò un colpo mortale alla mafia che solo adesso possiamo apprezzare nella sua ricchezza.

Cosa nostra – di cui svelò i segreti, la sua deriva terroristica, l’ampiezza della sue relazioni, il modello organizzativo – lo elesse come suo nemico principale. Il suo assassinio fu simbolico ma anche diretto a troncare un’azione dello stato che avrebbe potuto diventare mortale per l’organizzazione mafiosa.
Falcone capì che Cosa nostra era un’autonoma organizzazione criminale con riti e procedure proprie, che aveva scelto la strada dell’attacco al cuore dello stato con i sistemi che il terrorismo aveva già ampiamente sperimentato, che capì che la sfida delle cosche non si limitava più al contrasto del condizionamento e dell’inquinamento della politica perché aveva di fronte a sé una struttura che tendeva a farsi stato, antistato.
Dopo di lui la lotta alla mafia ha conosciuto successi, con l’arresto di quasi tutti i vecchi boss, ma anche frenate e sottovalutazioni. Tommaso Buscetta, che ho a lungo frequentato, lo considerava un uomo straordinario, capace di capire quel che persino ai mafiosi di rango sfuggiva nelle dinamiche dell’organizzazione.

Politica e magistratura
La politica e la magistratura, con Falcone in vita, invece trovarono mille ragioni per ostacolarlo accusandolo di tutto, di carrierismo, di arrendevolezza verso il potere politico, di cedimento di fronte alla vulgata che voleva rinchiudere il sistema mafioso dentro il sistema-Stato togliendole cioè la caratterizzazione e facendone una variabile del cosiddetto doppio stato. Quando a Capaci morì con la moglie e la scorta si avvertì che qualcosa di importante era successo. Poche settimane dopo l’assassinio terroristico di Borsellino e poi le bombe del 93 rivelarono quanto la criminalità mafiosa fosse diventata ambiziosa nel suo assalto allo stato.

L’attualità di Falcone

Che cosa ci resta ora di Falcone? Certamente l’immagine dell’uomo irreprensibile, del combattente per la democrazia, dell’uomo al servizio delle istituzioni. Si è forse perso per strada il suo approccio alla politica e al fenomeno mafioso. Quel suo voler procedere per scavi continui, per costante avvicinamento al cuore del problema , il suo rifiuto dei teoremi e della personalizzazione della lotta alla mafia. Il suo assassinio, come quello di Aldo Moro, da parte delle Br, segnano cesure nella storia italiana. La cattura del capo della Dc fu in un certo senso una prova di colpo di Stato. L’assassinio di Falcone rivelò come lo stato fosse diventato fragile proprio mentre il suo uomo di punta si era contrapposto ai boss e all’assalto terroristico delle cosche.

L’ipocrisia di oggi

Oggi le celebrazioni di Falcone sono spesso intrise di ipocrisia. Tanti suoi avversari nella politica e nella magistratura lo lodano mentre in vita lo contrastarono. Tanti gli preferiscono l’immagine intransigente di Borsellino. Eppure Falcone ha rappresentato il livello più alto di comprensione della minaccia al cuore dello Stato e l’inventore di strumenti giuridici e investigativi, che senza cedere all’eccezionalità, riuscirono a dare un colpo alla mafia. I suoi libri dovrebbero essere studiati nelle scuole. Soprattutto i suo testi giuridici dovrebbero essere studiati da tanti che descrivono la lotta alla mafia solo come contrasto al tradimento di pezzi dello stato. Falcone avrebbe preso le distanze da queste teorie “facilistiche”. Il suo approccio era scientifico, professionalmente ineccepibile, culturalmente estraneo alle banalizzazioni. Ricordiamolo così.