Ecco perché in Italia fa paura assumere. Il dipendente ha rubato ma la legge costringe Poste a tenerselo. La follia dei giudici del lavoro

Tribunali e cavilli ingabbiano il Paese. Un giudice del lavoro costringe Poste a reintegrare un dipendente condannato per aver rubato 15mila euro

Il titolo potrebbe essere: postino-ladro licenziato dall’azienda, reintegrato dal giudice. Ma, come accade molto frequentemente, il caso è molto più complesso di così. Dalle notizie di stampa si apprende che un dipendente delle Poste Italiane nel 2012 era stato imputato in sede penale di essersi appropriato di 14.500 euro in contanti, sottratti da una cassaforte di cui aveva le chiavi. La datrice di lavoro lo aveva immediatamente trasferito ad altra sede; in seguito, dopo l’adozione di misure cautelari da parte del giudice penale, lo aveva sospeso cautelarmente dal lavoro in attesa dell’esito del procedimento penale, salvo poi, a seguito di impugnazione della sospensione davanti al giudice del lavoro, vederselo reintegrare. Cinque anni dopo, nel 2016, il lavoratore viene finalmente condannato in sede penale: un anno e nove mesi per appropriazione indebita, con la condizionale; la prova principale è costituita da una intercettazione telefonica, nella quale lo si sente discutere se restituire o no il mal tolto.

Il passaggio – A questo punto, la datrice di lavoro procede alla contestazione disciplinare, e, sentite le sue difese, lo licenzia. Ma anche il licenziamento, come già a suo tempo la sospensione cautelare, viene dichiarato dal giudice nullo; questa volta, per difetto di immediatezza (cioè eccessivo ritardo rispetto al fatto). Con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e condanna dell’azienda a pagargli gli arretrati e il risarcimento del danno: insomma, anche il premio. Non ho letto gli atti del giudizio, che potrebbero contenere altri dettagli, rilevanti in vario Governo:incognita Tesoro,spunta ipotesi spacchettamentosenso. Ma se le cose sono andate così, una cosa è certa: la datrice di lavoro ha commesso un errore coll’aspettare cinque anni a effettuare la contestazione disciplinare: sarebbe stato molto più consigliabile contestare, e poi eventualmente sospendere cautelativamente il dipendente in attesa della sentenza penale (attesa che comunque non sarebbe stata affatto obbligata: la datrice di lavoro, se disponeva già allora della prova, costituita dall’intercettazione telefonica, ben poteva procedere subito al licenziamento). Errore molto strano, questo, dal momento che le Poste hanno uffici di gestione del personale espertissimi, che conoscono a menadito le leggi e la giurisprudenza in materia di procedimenti disciplinari.

Il nodo – Però, da questo ad annullare il licenziamento e reintegrare il postino-ladro coprendolo d’oro, ci corre. Perché il principio di immediatezza non è una regola formale, ma una specificazione del principio generale di correttezza, in funzione di tre esigenze sostanziali. La prima è di evitare che una contestazione tardiva impedisca al lavoratore di difendersi dall’accusa per la lontananza dai fatti; e non è certamente questo il caso, dal momento che nel frattempo si è svolto un procedimento penale nel quale egli ha potuto difendersi compiutamente.

I principi – La seconda esigenza sostanziale è quella di impedire il licenziamento tardivo, quando l’inerzia della datrice di lavoro possa essere considerata come comportamento concludente nel senso della rinuncia a sanzionare la mancanza; ma nel caso di cui stiamo discutendo la società aveva mostrato subito in modo inequivoco di voler reagire alla mancanza di cui il dipendente era imputato, sospendendolo cautelarmente in attesa della sentenza penale (salvo commettere l’errore formale di non procedere contestualmente subito anche alla contestazione scritta); è stato solo a seguito di un provvedimento giudiziale che la sospensione era stata revocata. La terza esigenza che il principio di immediatezza soddisfa consiste nell’impedire il cosiddetto “indugio malizioso” del datore di lavoro, il quale “conserva in freezer” il licenziamento per tenere il dipendente per lungo tempo sotto la spada di Damocle di un licenziamento per fatti lontanissimi nel tempo; ma in questo caso anche l’intendimento malizioso della datrice di lavoro, considerato il suo comportamento effettivo, può essere escluso.

La conclusione – Dunque, il giudice avrebbe ben potuto ritenere sostanzialmente rispettato il principio di immediatezza: sarebbe bastato dare atto che le Poste hanno avuto piena cognizione della colpa grave del dipendente, e soprattutto della sua prova provata, soltanto con la sentenza penale di primo grado. Il fatto è che molti dei nostri giudici del lavoro hanno un grave difetto: sono di volta in volta iper-formalisti, oppure iper-sostanzialisti, a seconda che sia l’una o l’altra opzione a portare alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento e alla reintegrazione del lavoratore. Nel caso del nostro postino, per arrivare a reintegrarlo era utile essere iper-formalista; e la giudice non se l’è fatto chiedere due volte. Aiutata in ciò – questo va riconosciuto – dall’imprudenza formale commessa dalla datrice di lavoro, di cui si è detto.

*Professore di diritto del lavoro
all’Università di Milano
e Senatore del Pd