Ecco perché

di Gaetano Pedullà

Non avevo ancora vent’anni quando entrai nella casa di un quindicenne ucciso due giorni prima dalla mafia in un quartiere popolare alle porte di Paternò, a due passi da Catania. Il giornale per cui lavoravo voleva che raccontassi una realtà così barbara, dove anche un ragazzino poteva morire come un boss, crivellato dai colpi di kalashnikov. Ricordo ancora il viso impietrito della madre e i miei crampi allo stomaco. In quella abitazione di una dignitosa povertà una cosa mancava più di tutto: la speranza di una vita diversa. Vivere e morire, uccidere o essere uccisi, nulla sarebbe mai sfuggito a quella tela di ragno fatta di violenza e di omertà. Alla mafia non si scappa, non solo perché senza la droga, le puttane e le estorsioni non si mangia. Alla mafia non si scappa perché il crimine senza speranza si fa Vangelo. I clan prendono il posto della famiglia, dello Stato, della Chiesa. E il boss è l’unico Papa. Un’illusione che solo voci fortissime possono spezzare. Voci che possono venire da uno Stato che combatte sul serio le cosche, come è avvenuto dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino. Oppure voci con una fortissima tensione etica e religiosa, come quella di Papa Francesco. “C’è ancora tempo per non finire nell’inferno che vi aspetta se continuerete sulla strada del male”, ha detto Bergoglio ai mafiosi, partecipando alla giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Parole che hanno riportato alla mente Giovanni Paolo II nella Valle dei templi di Agrigento dopo l’omicidio di don Puglisi a Palermo. “Convertitevi” gridò Wojtyla, e tanti lo fecero. Perché la mafia irride lo Stato e i Comandamenti, ma soffre terribilmente il buon esempio, lo scatto delle coscienze e la forza di chi sa dare una speranza. Domani una pistola tornerà a sparare. Ma la Chiesa e lo Stato, insieme, possono alzare un muro. E Francesco ce l’ha ricordato.