È un po’ come il gioco dell’oca. Ogni volta che arriva un giudice – italiano, europeo o internazionale che sia – a smontare leggi (e propaganda) del governo Meloni, si riparte dal via. Dal copione di berlusconiana memoria che le destre ripropongono ininterrottamente, alla bisogna, riportando le lancette del tempo al 1994. Con la ritrita tiritera delle toghe comuniste e della magistratura politicizzata che se dalle nostre parti continuano ad avere un minimo di appeal, grazie ai soliti media pronti a fare da grancassa all’esecutivo, all’estero suscitano la reazione che meritano. Grasse risate.
Dopo l’antipasto (e il disastro) dell’operazione Albania, solo negli ultimi giorni, si è perso il conto delle repliche del reiterato spettacolo. L’ennesima figuraccia (internazionale), va in scena a L’Aja. A firma del procuratore della Corte penale internazionale, Nazhat Shameem Khan, che ha accusato il governo italiano di “non aver ottemperato ai suoi obblighi” sul caso Almasri e di aver “impedito alla Corte di esercitare le sue funzioni”. Il caso è quello del presunto torturatore libico, ricercato dalla Cpi, fermato in Italia ma rispedito a Tripoli con un volo di stato anziché essere consegnato alle autorità internazionali. La reprimenda vergata da Khan e riportata nei giorni scorsi da La Stampa, fa riferimento ad una richiesta di estradizione della Libia (emessa lo scorso 20 gennaio, solo due giorni dopo il fermo del ricercato a Torino) ma resa nota “oltre tre mesi dopo il rilascio di Almasri”. Ciononostante, constata la Cpi, il presunto torturatore “non è stato né consegnato alla Corte né è stato estradato (o arrestato) in Libia al suo ritorno ma trasferito in piena libertà a Tripoli, dove è stato accolto da una folla festante”. Conclusione: “L’Italia sembra aver ritenuto di poter esercitare discrezionalità nel determinare se potesse dare priorità alla richiesta di estradizione della Libia rispetto alla richiesta di consegna della Corte”, mentre “aveva l’obbligo di consultare la Corte e la sua mancata consultazione costituisce di per sé una grave inadempienza”.
Stesso giorno, altra figuraccia. Stavolta è il Massimario della Cassazione, in una relazione non vincolante a demolire il decreto Sicurezza elencandone, uno dietro l’altro, tutti i possibili profili di incostituzionalità. Peraltro già ampiamente noti e da più parti evidenziati durante l’iter del provvedimento. Il ministro della Giustizia Nordio non perde tempo a dichiararsi “incredulo”, annunciando di aver dato agli uffici di Via Arenula di “acquisire la relazione” e soprattutto “conoscerne l’ordinario regime di divulgazione”. Tocca così all’Anm ricordare al Guardasigilli “che uno dei compiti specifici dell’Ufficio del Massimario, le cui attribuzioni ex art. 68 ordinamento giudiziario sono definite dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, è proprio quello di redigere le relazioni sulle novità normative, evidenziandone anche le eventuali criticità dal punto di vista della tenuta costituzionale”. In soccorso arriva poi il collega Piantedosi, che sempre in un’intervista alla Stampa, definisce quello della Cassazione “un esercizio connotato da una forte impostazione ideologica”. Un incipit promettente, peccato per la successiva ammissione del ministro dell’Interno: “Non ho avuto tempo di leggere la relazione, ma…”.
Intanto, mentre il vice premier Tajani disserta su temi decisivi per il destino del pianeta, come le origini giudaico-cristiane (a dir poco controverse) della bandiera europea, apprendiamo dall’Istat che l’inflazione, specie sui prodotti alimentari, è tornata a correre e la pressione fiscale, malgrado la crociata delle destre contro l’eccessiva tassazione, continua a salire. In barba alla propaganda.