L'Editoriale

Colpo basso ai servitori della Nazione

Chissà perché in Italia c’è gente che si ostina a rubare una mela, sapendo che così si va dritti in prigione, mentre se si fanno i crimini veri, fosse anche scendere a patti con la mafia, il fatto non costituisce reato.

Colpo basso ai servitori della Nazione

Chissà perché in Italia c’è gente che si ostina a rubare una mela, sapendo che così si va dritti in prigione, mentre se si fanno i crimini veri, fosse anche scendere a patti con la mafia, il fatto non costituisce reato. Questo è quanto stabilisce la sentenza d’Appello del processo sulla trattativa tra Stato e cosa nostra (leggi l’articolo), riconoscendo che gli imputati imbastirono effettivamente i rapporti con i boss, ma in fin dei conti meritano il perdono, poiché – a detta dei giudici – trattare con chi ricatta le istituzioni si può fare.

Un’interpretazione che demolisce il raccontino della legge uguale per tutti scolpito ormai sempre più grottescamente nei tribunali, e che invece sancisce una sorta di effetto Draghi anche in magistratura. Come il premier che tiene insieme nel suo governo il diavolo e l’acqua santa, mezza destra e la sinistra, i 5S e Berlusconi, la Lega di Salvini e quella dei governatori, così in quello che è il processo chiave di una stagione giunta all’apice con gli assassini di Falcone e Borsellino, fino agli attentati di Roma, Firenze e Milano, passa il principio che mafia e Stato stanno su uno stesso piano dove possono trattare.

Molto meglio sarebbe stato – se proprio si volevano assolvere Dell’Utri, Mori & C. – far finta di aver dormito negli ultimi trent’anni e affermare che il fatto non sussiste. Ma dire che è stato tutto vero, e quindi abbiamo riconosciuto la mafia come entità con cui fare accordi, è un colpo basso a quei servitori del Paese che fino a oggi hanno messo in gioco la vita credendo che c’era un solo fronte – e non due – su cui stare. E il peggior segnale a chi ci crede ancora.