L'Editoriale

Cose mai viste su TeleMeloni

Cose mai viste su TeleMeloni

Tele-Renzi prima. Tele-Draghi poi. E ora Tele-Meloni. Diciamoci la verità, non è l’ingerenza politica in sé nella gestione della Rai, pagata dal canone di tutti gli italiani, ma soggetta al controllo della politica (e del governo di turno) a scandalizzare più di tanto. Ché in fondo, di lottizzazione della televisione di Stato si parla dai tempi della prima Repubblica. E da destra a sinistra, mentre a parole si inneggiava all’indipendenza del servizio pubblico al grido “fuori la politica dalla Rai”, quella stessa politica si è ben guardata nei fatti dal mollare un osso troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire. Fino al salto di qualità della riforma della governance del 2015 (governo Renzi). Quando il controllo parlamentare ha ceduto il passo direttamente a quello dell’esecutivo. Con il ministero dell’Economia che nomina l’amministratore delegato e il consigliere del Cda destinato alla presidenza.

Ciò che invece sorprende decisamente di più rispetto al passato non è tanto l’allergia della politica verso la libera informazione, quanto il livello di occupazione raggiunto nel corso di questa legislatura, che ha portato a situazioni senza precedenti nella storia dell’emittenza pubblica. A cominciare dall’inedita situazione di stallo della Commissione di Vigilanza paralizzata, dal suo insediamento, dalla mancata ratifica del presidente – Simona Agnes, in quota Forza Italia – che non ha i due terzi dei voti della stessa Vigilanza richiesti dalla legge. E dal centrodestra che diserta sistematicamente le sedute di convalida per evitare di andare sotto. Il risultato è una Rai completamente asservita al governo e un organo parlamentare, che dovrebbe vigilare sul rispetto del contratto di servizio, a sovranità limitata. E sì che di cose sulle quali vigilare ce ne sarebbero parecchie. A cominciare dall’osservanza del contratto di servizio, in base al quale la mission dell’emittenza pubblica dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere quella di garantire la qualità dell’informazione nel rispetto, tra gli altri, dei criteri di equilibrio, correttezza, completezza, imparzialità, indipendenza e pluralismo.

Non a caso, nella programmazione dei palinsesti, i vertici Rai dovrebbero (il condizionale è di nuovo d’obbligo) tenere conto, per esempio, del rapporto Qualitel (la rilevazione periodica sul gradimento televisivo, obbligatoria come previsto dal Contratto di servizio). Così come la tv pubblica dovrebbe adottare, parallelamente, criteri di gestione che assicurino la trasparenza e l’efficienza delle risorse pubbliche. Eppure, solo nelle ultime settimane, come raccontato da La Notizia con gli articoli di Andrea Sparaciari, a fronte di uno squilibrio contabile che impone all’azienda di ripianare 26 milioni di euro in due anni, sono stati stipulati con alcuni conduttori, alcuni dei quali arrivati o tornati in Rai sotto la guida dell’attuale management, contratti al minimo garantito (che devono cioè essere pagati indipendentemente dai risultati e dalla messa in onda con percentuali fino al 94% del compenso pattuito) per circa 7,7 milioni di euro complessivi.

E di fronte al flop di alcune di queste trasmissioni, chiuse per inesorabile carenza di share, per far quadrare i conti, a rimetterci sono stati, tra gli altri, alcuni programmi storici come Report e Presa diretta, tra i più graditi e seguiti stando ai numeri del rapporto Qualitel e agli indici di ascolto. Insomma, oltre al danno la beffa. Per la Rai, ma soprattutto per gli utenti che pagano il canone. E si vedono tagliare puntate dei programmi preferiti ma sgraditi al governo. Che poi si risente pure se qualcuno osa parlare di TeleMeloni.