Dove Giorgia Meloni stia portando l’Europa, ma soprattutto l’Italia, dopo tre anni di governo, come recita il titolo della copertina che il Time ha recentemente dedicato alla nostra premier, non è solo una domanda retorica (senza punto interrogativo) ma un sospetto che assomiglia sempre di più ad una certezza. Figlia della conversione dal sovranismo della donna, madre e cristiana, che lanciava strali contro l’Europa al grido di “la pacchia è finita”, all’Atlantismo più spinto in cui, passando dai baci sulla fronte di Biden all’adorazione del machismo di Trump, quell’ostentato patriottismo tricolore che ha fatto la sua fortuna in campagna elettorale si è ormai dissolto nella totale sudditanza all’alleato americano.
Una metamorfosi che coincide e si sovrappone perfettamente con la stessa riverenza che ha segnato la trattativa (si fa per dire) condotta da Ursula von der Leyen, alter ego di Meloni a Bruxelles, tornata festante dalla Scozia con un accordo capestro spacciato come un successo ma che rappresenta di fatto una resa incondizionata alle pretese americane di continuare a lucrare sulla pelle degli europei. Come se non bastassero gli oltre tre anni di guerra in Ucraina, durante i quali i cittadini Ue – specie gli italiani – hanno pagato il costo delle (auto)sanzioni inflitte alla Russia con rincari fuori controllo della bolletta energetica mentre gli Stati Uniti ci vendevano e continueranno a venderci il gas (liquido) a quattro volte il prezzo di quello che compravamo da Mosca.
Giorgia e Ursula, scambio di amorosi sensi
Senza contare le vagonate di armi e di miliardi regalati a Kiev per sostenere una causa persa in partenza. E non finisce qui. Lo scambio di amorosi sensi tra Giorgia e Ursula si protrae parallelamente al palese asservimento nei confronti di Washington che le due donne forti (si rifà per dire) non perdono occasione di mettere in mostra. L’astensione degli europarlamentari sulla mozione di sfiducia (respinta) nei confronti di von der Leyen, presentata per altro da un esponente dello stesso gruppo al quale è iscritto in Europa proprio il partito di Meloni, è solo l’ultimo assist arrivato dalla premier italiana alla presidente della Commissione Ue.
Così come, del resto, dietro l’obiettivo dichiarato di evitare una guerra commerciale con gli Stati Uniti, Giorgia è stata a livello continentale la più strenua sostenitrice della necessità di evitare uno scontro – che in realtà è stato una vera e propria aggressione all’economia europea – con gli Usa. E della quale Ursula si è fatta degna interprete siglando l’accordo capestro con cui ha di fatto accettato tutte le condizioni dettate da Trump. Una sconfitta a tavolino per forfait senza neppure giocare la partita.
Da prima gli italiani a prima gli americani
Non ha fatto una piega, Meloni, quando ha firmato il nuovo Patto di stabilità Ue che impone al nostro Paese tagli per circa 13 miliardi l’anno, per i prossimi sette, per ridurre il mostruoso debito pubblico che ha continuato a crescere anche durante il suo governo. Non ha fatto un plissé, Giorgia, neppure quando si è trattato di accettare il diktat con cui il presidente Usa ha imposto ai partner della Nato di portare al 5% del Pil le spese militari, che di qui al 2035 ci costerà a regime circa 100 miliardi l’anno per acquistare armi che utilizzeremo dove e quando gli americani ci chiederanno di farlo.
Non ha avuto da ridire, la premier, che ha definito, al pari dei suoi vice Tajani e Salvini, sostenibile l’accordo sui dazi al 15% sulle merci Ue esportate negli Stati Uniti, accolto con estremo allarme dalla gran parte dei partner europei e dalle associazioni di categoria nazionali per l’impatto negativo che avranno sul Pil, l’export e i posti di lavoro anche in Italia. Gli effetti reali di questo disastro si vedranno nel medio termine. Per capire che il patriottismo di Meloni è ormai solo un ricordo, invece, non serve più nemmeno aspettare.