Se ne doveva andare Bruno Vespa e invece se n’è andato Luigi Di Maio. Basta questo per spiegare – meglio di tante raffinate analisi politiche – la parabola dei Cinque Stelle. La forza che aveva promesso un profondo cambiamento nel Paese ha tollerato che restasse intatto l’emblema più visibile, quasi sacro, della conservazione del vecchio potere, esposto come una reliquia e persino omaggiato da chi doveva mostrare anche simbolicamente che si voltava pagina.
Invece Vespa continua a fare il dominus del grande intrattenimento politico della rete ammiraglia Rai, esattamente come dieci anni e venti anni fa, inamovibile mentre passavano i direttori generali e i governi cambiavano colore. Ora tutti sanno che il Movimento ha pagato un prezzo altissimo per l’ostilità della grande informazione, ma il peggiore spot possibile se l’è mandato in onda da solo, non una volta ma tutte le sere che accendendo Rai1 l’Italia ha visto che qui non cambia niente. Uno spot devastante, anche quando andavano Di Maio, Conte e i suoi ministri, perché lì – indipendentemente da ciò che si sarebbe detto nel programma – c’era la prova provata della resa incondizionata al sistema.
E questo non solo perché Il conduttore di Porta a Porta (all’epoca direttore del Tg1) resta nella storia anche per aver indicato nella Democrazia Cristiana il suo editore di riferimento, vagamente al contrario di un maestro come Montanelli, che considerava suoi editori i lettori o il pubblico.
Vespa è il testimonial vivente di come le regole dello Stato sono uguali per tutti, ma chi trova la strada giusta può essere meno uguale degli altri. Nel momento di massima pressione sulle finanza pubbliche, dopo che il Governo Monti aveva messo un tetto agli stipendi dei dipendenti pubblici, e la sua ministra Fornero reso familiare una parola – esodati – mai sentita prima, il conduttore scriveva una bella letterina al Cda di Viale Mazzini per sottrarsi alla tagliola dei 240mila euro di stipendio l’anno, ma ne pretendeva quasi dieci volte di più in quanto il suo era un ruolo da artista (e pertanto esente da quel limite). E su questo, aver ospitato la sceneggiata del contratto con gli italiani di Berlusconi gli dava una buona dose di ragione.
Esattamente come ha avuto ragione ogni volta che ha fiutato il vento della politica, dai tempi della Prima Repubblica alla possibile vittoria di Matteo Salvini. Al leader leghista mercoledì scorso ha fatto un incredibile regalo, offrendogli la possibilità di un monologo nello spazio che invece doveva limitarsi a un promo della puntata, per di più durante il riposo di una seguitissima partita di calcio. Un regalo di cui proprio Salvini non aveva affatto bisogno, visto che dilaga come nessun’altro esponente politico su tutte le rete televisive, certificando una palese violazione della par condicio a pochi giorni dalla consultazione elettorale in due regioni. Denunciato per questo dal candidato Stefano Bonaccini, di fatto l’antagonista di Salvini e non della Borgonzoni, Vespa ha proposto una compensazione per ieri sera, usando il palinsesto Rai come fosse casa sua.
Ora, al di là dell’innegabile valore professionale e del gradimento che si può avere di questo totem della tv di Stato, tra i grandi misteri italiani ha ormai posto di diritto la domanda sul perché tutto cambia tranne il più trito e ritrito dei programmi della Rai. Una domanda che ai Cinque Stelle primi azionisti della scelta dell’Ad Fabrizio Salini ha già presentato il conto, ma che in futuro richiederà un prezzo allo stesso capo azienda o al suo controllore Gualtieri. Nel frattempo la televisione di noi tutti resta antica, rinunciataria a cercare un pubblico più giovane, e cieca anche di fronte al dilagare di Porro, Del Debbio, Gruber e tanti altri sui social, mentre a Rai1 si sente ancora la sigla di “Via col vento”.