Una tassa che viene (sul serio) e una tassa che va (a chiacchiere). Il Pd di Matteo Renzi, convinto sostenitore della nuova imposta sulle buste dell’ortofrutta, si scorda di aver governato negli ultimi cinque anni, e a due mesi dalle elezioni promette l’abolizione del canone Rai.
Perché non l’abbia fatto prima è un mistero, mentre è certo che Palazzo Chigi ha caricato proprio il canone sulla bolletta elettrica di tutti gli italiani, compresi quelli che non hanno una tv, costretti a chiedere un’esenzione di cui molti non sanno niente. La prospettiva di un’imposta in meno, in questo Paese tartassato, secondo Renzi doveva raccogliere unanimi consensi. Stavolta però non è stato così, e a partire dal suo ex ministro Calenda è arrivata un’onda di scetticismo sulla fine del balzello. Un po’ perché in campagna elettorale siamo ormai vaccinati contro le promesse lasciate sulla carta, un po’ perché il segretario Pd non immagina di togliere il canone, avviando così – dal nostro punto di vista necessarissima – privatizzazione di Viale Mazzini, ma scaricando il costo dell’azienda sulla fiscalità generale. Quello che non ci levano da una tasca, insomma, ce lo levano dall’altra. Il pantalone degli italiani però è sempre uno, e sempre meno capace di sostenere uno Stato spendaccione e una classe politica che fa i suoi conti a nostre spese.
Quella che Renzi spaccia per una proposta innovativa è dunque vecchia e nel migliore dei casi neutra rispetto all’esborso dei contribuenti. Sullo schermo di quello che fu il rottamatore è rimasto solo il monoscopio.