A volte la realtà sembra quasi accanirsi contro Giorgia Meloni. Neanche il tempo di fare un annuncio o una promessa, che ci pensano i dati a smentirla. Il tempismo, in effetti, non sembra proprio il suo punto forte. E così, neanche 24 ore dopo aver promesso un taglio delle tasse, arriva l’Ufficio parlamentare di bilancio a dire che proprio il suo governo le tasse le ha aumentate. E proprio, guarda caso, per quelle categorie che la stessa presidente del Consiglio assicurava di voler aiutare: il ceto medio e i lavoratori. Gli stessi, verrebbe da dire, che di certo non ha voluto difendere chiedendo agli elettori di astenersi sui quattro referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno.
Mentre Meloni assicura di voler aiutare il ceto medio, la sua ultima manovra ha reso i salari più vulnerabili, aumentando proprio le tasse. Potenziando il drenaggio fiscale. Ovvero l’effetto per cui gli aumenti degli stipendi portano i contribuenti su aliquote Irpef più alte o a una riduzione delle detrazioni. Tradotto: i lavoratori si trovano a pagare più tasse per 370 milioni di euro. Un aumento del 13% rispetto al 2022. E non proprio tutti i lavoratori, ma solo quelli dipendenti. Sempre quelli per cui le destre promettono di ridurre le aliquote Irpef per far pagare un po’ meno tasse.
Quindi, non solo il governo non ha fatto nulla contro l’inflazione, al di là del fallimentare carrello tricolore. Ma è addirittura riuscito a peggiorare la situazione con la riforma fiscale e la manovra, con aumenti minimi degli stipendi – rivendicati proprio come misura contro l’inflazione – ma tasse più alte. E la beffa, tanto per cambiare, è per i lavoratori dipendenti. Soprattutto per operai e impiegati, guarda caso. Mentre, altra coincidenza, va meglio a pensionati e autonomi. E quindi proprio chi doveva beneficiare maggiormente del taglio del cuneo fiscale, si trova a essere più penalizzato. Ma, almeno, un lato positivo c’è. Quantomeno per Meloni. Perché lo Stato, così, guadagna di più. E chi se ne importa se lo fa sulle spalle di operai e impiegati.