L'Editoriale

Il fallimento programmato dei referendum

Il governo ha orchestrato l’astensione. Le divisioni nell’opposizione e il vuoto mediatico hanno fatto il resto

Il fallimento programmato dei referendum

L’8 e 9 giugno 2025 si è consumata l’ennesima sconfitta referendaria. I cinque quesiti abrogativi – quattro sul lavoro, uno sulla cittadinanza – non hanno superato il quorum. L’affluenza definitiva si è attestata intorno al 30%. Già al termine della prima giornata di voto il dato si era fermato al 22%, compromettendo ogni possibilità di validazione. Anche questa consultazione si inserisce nella tendenza ormai stabile: dal 1997, sei referendum su sette sono risultati invalidi per mancato raggiungimento del quorum.

La strategia del governo

La maggioranza di governo ha scelto l’astensione come linea ufficiale. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno indicato ai propri elettori di non partecipare al voto. Giorgia Meloni ha definito l’astensione una scelta politica legittima. Matteo Salvini ha dichiarato di non condividere i contenuti dei quesiti e di considerare i referendum “un’arma politica”. Antonio Tajani ha ribadito che non votare costituisce una manifestazione di dissenso. Il ministro Nordio ha parlato di diritto costituzionale all’astensione. La presidente del Consiglio si è recata al seggio senza ritirare le schede, sottolineando il rispetto per l’istituto referendario ma mantenendo la posizione astensionista.

Il fronte dell’astensione ha beneficiato anche del limitato spazio informativo riservato ai referendum. L’Autorità per le comunicazioni ha rilevato che la Rai ha dedicato ai quesiti meno dello 0,62% del proprio tempo informativo. Sulla ridotta copertura mediatica si sono concentrate le accuse dell’opposizione e dei promotori, che hanno parlato di “boicottaggio istituzionale” e di “silenzio mediatico”.

Le divisioni nel campo favorevole

Il Partito democratico ha sostenuto ufficialmente il sì su tutti i quesiti. La segretaria Elly Schlein ha partecipato alle iniziative promosse dalla Cgil. Tuttavia, nel partito sono emerse divisioni. Sei parlamentari dell’area riformista – tra cui Guerini, Madia, Picierno e Quartapelle – hanno annunciato che si sarebbero astenuti sui tre quesiti riguardanti il Jobs Act, sostenendo soltanto quelli su appalti e cittadinanza. Le divergenze hanno avuto ampia visibilità mediatica, minando la coesione del messaggio referendario.

Il Movimento 5 Stelle ha sostenuto i quattro quesiti sul lavoro, mentre sulla cittadinanza ha lasciato libertà di coscienza. Il leader Giuseppe Conte ha dichiarato il proprio sì personale, precisando però che non avrebbe promosso quel quesito. Alleanza Verdi e Sinistra ha sostenuto il sì su tutti i quesiti. Azione ha indicato il no sui quesiti lavoristici e il sì sulla cittadinanza. Italia Viva ha assunto una posizione contraria sui quesiti lavoristici e favorevole solo sul tema della cittadinanza. +Europa ha sostenuto il sì su cittadinanza e sicurezza sul lavoro.

La frammentazione del campo favorevole ha reso difficile la costruzione di un fronte ampio e unitario.

Il ruolo dei sindacati

La Cgil ha promosso attivamente la raccolta firme e la campagna referendaria, investendo oltre 230.000 euro in pubblicità. L’ultimo appuntamento nazionale della mobilitazione si è tenuto il 5 giugno a Roma. La Cisl si è espressa contro i quesiti abrogativi; la Uil ha lasciato libertà di scelta agli iscritti; Usb ha sostenuto il sì su tutti i quesiti.

L’incapacità di estendere la mobilitazione al di fuori della base sindacale si è intrecciata con il livello di fiducia complessiva nei confronti dei sindacati. Secondo i dati più recenti, la fiducia nei sindacati si attesta intorno al 42% (il 42,7% secondo Eurispes 2024), un dato che, pur superiore a quello dei partiti politici, non ha garantito una capacità di mobilitazione sufficiente. Negli ultimi anni i sindacati hanno visto erodere la loro influenza politica e sociale, e questa consultazione ne ha fornito una nuova conferma.

La dinamica del disinteresse

Diversi fattori hanno contribuito al disinteresse dell’elettorato. La natura tecnica di molti quesiti ha reso difficile una comunicazione chiara ed efficace. La mancanza di un quesito catalizzatore – come avrebbe potuto essere quello sull’autonomia differenziata, dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale – ha ridotto l’interesse generale. La sovrapposizione con i ballottaggi amministrativi non ha prodotto un effetto traino sufficiente a compensare la scarsa mobilitazione nazionale.

La stanchezza referendaria ha giocato un ulteriore ruolo. Dal 1974 ad oggi, su 67 referendum abrogativi, 28 non hanno raggiunto il quorum. Negli ultimi trent’anni solo due consultazioni hanno superato la soglia del 50%: nel 1995 e nel 2011. Il meccanismo costituzionale che consente all’astensione di funzionare come voto contrario si è confermato decisivo.

L’astensione organizzata

Secondo un’analisi di YouTrend, l’astensione registrata in questa tornata non è stata solo il prodotto di disinteresse o allergia al voto, ma il risultato di una strategia politica consapevolmente alimentata dal governo e da ampie aree della maggioranza parlamentare.

Il fallimento dei referendum del 2025 certifica il consolidamento di un modello politico in cui la partecipazione diretta viene sistematicamente neutralizzata. Chi ha voluto questa sconfitta non ha dovuto vincere nei numeri: è bastato impedire che i numeri ci fossero.