Osama Njeem Almasri non è scappato: uno Stato (l’Italia di Giorgia Meloni) l’ha riaccompagnato a Tripoli, ignorando il mandato della Corte penale internazionale. Ora le immagini rilanciate da media libici e testate italiane lo mostrano mentre aggredisce in strada, in pieno giorno, a mani nude (il video sarebbe del 2021 e l’aggredito non sarebbe morto). L’ICC aveva reso pubblico il mandato e le accuse per crimini di guerra e contro l’umanità; Roma ha scelto la via breve del rimpatrio con un aereo di Stato, rivendicandone le ragioni di sicurezza. È una decisione politica con conseguenze.
Qui la domanda non è retorica: che reato è lasciare libero chi è accusato di crimini gravissimi, sapendo chi è? Nel diritto penale la bussola è l’articolo 40, comma 2, c.p.: «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Vale quando esiste una posizione di garanzia. Nel caso Almasri lo Stato italiano aveva la custodia di un arrestato su mandato internazionale e un dovere di cooperazione con la Corte: lo ha sottratto al giudice.
Le responsabilità penali le accerteranno i tribunali: la posizione di Meloni è stata archiviata, altre restano in valutazione. Ma la responsabilità politica è già scritta: riportando Almasri in Libia, il governo si è assunto il peso delle sue decisioni. Oggi quel “peso” ha la consistenza di un corpo senza vita steso sull’asfalto. Quel corpo e tutti gli altri corpi torturati prima della sua liberazione e tutti i corpi che potrebbero aver subito violenze nei giorni successivi. Con la corresponsabilità morale e politica del nostro governo.
Non ci sono scuse né alibi. A quella scelta va dato un nome, davanti al Paese. Perché la giustizia internazionale non è un optional e perché ogni nuova vittima grida la complicità per omissione di chi si è preso questa responsabilità.