Il 12 dicembre sarà giornata di sciopero generale promossa da Cgil contro la legge di bilancio. Nel mezzo di richieste nette – salari “emergenza fondamentale” secondo il segretario generale Maurizio Landini. Nel frattempo, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ironizza con un post su X (“In quale giorno della settimana cadrà il 12 dicembre?”) come se lo sciopero fosse un gioco di calendario e non la rivendicazione di chi fatica. Anche solo evocare uno “sciopero del weekend lungo”, come fa Meloni parlando dello stesso venerdì scelto dai lavoratori, significa sminuire una mobilitazione che avviene su mandato collettivo.
È un gesto che tradisce la pelle – letteralmente – di chi ogni mattina si alza, va a lavorare, paga tasse e vede la propria vita consumarsi fra rincari, fisco pigro, contratti da rinnovo eterno. La Cgil cita in particolare il fiscal drag: lavoratori dipendenti e pensionati hanno versato 25 miliardi di euro in più in tre anni solo perché gli scaglioni fiscali non sono stati adeguati. Eppure, sul gradino più alto delle istituzioni, la frase ironica diventa strategia: trattare la protesta come un dettaglio, un fastidio da calendario. Le rivendicazioni – aumenti contrattuali, detassazione per tutti i lavoratori, investimenti su sanità e servizi – diventano macerie retoriche, mentre si celebra la “normalità” dello status quo. Quando Meloni parla di “gente” – il popolo che la elegge e che “interpreta” – ma ne deride le rivendicazioni, si consuma una disconnessione grave.
Se si considera prioritaria l’immagine della leader ma non la voce concreta di chi conta su un salario e contratti rinnovati, allora l’ideologia del “popolo” diventa solo scenografia. E le scenografie prima o poi crollano. Perché la pelle della povera gente non è una stoffa su cui fare passerella politica. È la superficie sensibile di un Paese che lotta per sopravvivere. Quando i lavoratori scioperano rinunciando allo stipendio, come ricorda Landini, non sono costretti “a regalare” il proprio tempo né i propri diritti. Se si ignora quel corpo sociale alla fine non è la leader a restare “la voce del popolo”: è il popolo che la lascia fuori dal microfono. E allora, la prossima battuta ironica sarà solo il segno di una distanza che non potrà più essere sanata.