L'Editoriale

La brutta lezione di Telecom. L’economia italiana è illiberale

La brutta lezione di Telecom. L’economia italiana è illiberale

Comunque la si guardi, la battaglia in corso su Telecom dimostra che le regole del mercato economico in Italia funzionano poco, possono essere estese o ritirate come il mantice di una fisarmonica, e alla fine quello che conta non è il merito delle imprese ma le scelte della politica. Non siamo ai tempi del fallimentare dirigismo sovietico sulla produzione ma andiamoci piano nel sostenere con un anglosassone che il nostro sistema è liberale, a meno di non voler suscitare una sonora risata. Purtroppo questo Paese è l’erede di quel modello Cuccia – lo storico banchiere di Mediobanca – secondo cui a Londra o New York le azioni si contano mentre qui si pesano, a testimonianza che un euro di chi è “unto dal Signore” vale più dello stesso euro in tasca al signor Rossi di turno. Dai tempi delle grandi spartizioni finanziarie e industriali pilotate da via Filodrammatici sempre ai soliti noti (Agnelli, Pirelli, ecc.) è passata molta acqua sotto ai ponti, e oggi abbiamo norme e Authority che vigilano sui mercati, assicurando in teoria uguali opportunità per tutti. Poi però si apre la partita Telecom e torniamo indietro di decenni. Prima di continuare qui va fatta una premessa. I francesi di Vivendi, che sono diventati azionisti di riferimento dell’ex monopolista dei telefoni dopo complessi scambi di titoli su uno scacchiere internazionale, sin dal primo momento non si sono comportati benissimo. Per un lungo periodo hanno negato di controllare il gruppo delle Tlc, senza che però nessuno in quella fase contestasse nulla.

Era l’epoca in cui il dominus del colosso d’Oltralpe Vincent Bollorè andava d’amore e d’accordo con il maggiore player privato italiano del settore, Silvio Berlusconi. Tanto d’accordo che dal Parlamento alle Autorità indipendenti di vigilanza non si mosse una paglia, a dimostrazione che all’occorrenza la fisarmonica delle regole può restare muta. Poi è scoppiata la guerra. Vivendi pensava di fare un affare comprando la pay-tv di Mediaset, ma dopo aver firmato il contratto si è accorta di aver pagato troppo e ha cercato di fare marcia indietro. Ne è nato uno scontro legale che Bollorè ha immaginato di aggirare scalando la stessa Mediaset. A questo punto dal Governo alle Autorità sul mercato tutti si sono accorti che con il suo 23,9% Vivendi era il padrone di fatto di Telecom, e salendo nell’azionariato di Mediaset (con la quale aveva invece serenamente scambiato una partecipazione ai tempi dell’acquisto di Premium) adesso presentava una concentrazione eccessiva nelle tlc italiane. Parallelamente, i governi Renzi e Gentiloni decidevano a tavolino le operazioni industriali sulla nuova rete internet veloce, estromettendo la Telecom a guida francese per regalare questo ricco business all’Enel (controllata da manager renziani) e alle Fondazioni bancarie attraverso la Cassa depositi e prestiti.

PAGA PANTALONE

C’era da risarcire gli enti guidati dal grande manovratore Giuseppe Guzzetti per il sacrificio (inutile e dispendioso) fatto con l’investimento nei Fondi Atlante con cui si è messa una pezza al disastro di alcuni istituti bancari. Perciò al tavolo del Risiko finanziario si è inventata una società ad hoc, la Open Fiber, dove l’uomo delle Fondazioni Franco Bassanini non fa solo il presidente, ma in senso letterale il bello e il cattivo tempo, arrivando a far saltare persino l’amministratore delegato. E pazienza se a fare telecomunicazioni sarà l’Enel, che si occupa di energia, e non Telecom. Il merito, come detto, in Italia non conta niente se c’è di mezzo la politica. Non lamentiamoci dunque se dai servizi pubblici in giù le cose qui costano il doppio e funzionano la metà. Ma torniamo alla battaglia su Telecom e alla lezione che ci insegna.

Il controllo dei francesi sul gruppo non è così saldo come poteva sembrare e il Fondo americano Elliott, che guarda caso ha già incrociato Berlusconi nella cessione del Milan, sale fino a sfiorare il 10% di Telecom e con alcune prevedibili convergenze di altri grandi investitori può togliere a Vivendi la scelta dei manager. Un esito che da ieri è quasi scontato visto l’imprevedibile ingresso in Telecom della Cassa Depositi con una quota fino al 5%. Nella disinformazione generale, insomma, siamo tornati in qualche misura a nazionalizzare l’erede della Sip.  Non stupiamoci se chi ci guarda dalla City o da Wall Street scuote le spalle e ride.